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Alberto Figliolia. Tomaso Kemeny: Primavera Transilvana - Tavasz Erdelyben 
Martedì 18 alla casa della Poesia di Milano
Tomaso Kemeny
Tomaso Kemeny 
14 Marzo 2008
 

...

quando avrà un nome l'arresto del vortice prodigioso

quando avrà sangue il mare d'argento

quando la morte saprà chi ha portato via nelle

sue ceste incestuose

allora nudo come un albero correrò nel vento

per sapere dove porta la via inesistente

per rispondere alla sfinge il nonsenso dell'esistenza

per tacere ai piccoli confessori di miserie

il mio contegno di erede di fallimenti

(ho scagliato nella forra la mia corona di ferro

e prigioniero di un orizzonte infernale

so che la mia vita è la più breve)

quando il colore dei tuoi occhi sarà il nulla

quando le grandi speranze saranno imbalsamate come camelli

quando il rumore dei tuoi passi

romperà l'esilio dell'uccello di fuoco

quando l'aldiqua sarà una rosa disserrata a festa

e non ci sarà bisogno di ricordi per sentirci eterni

quando le parole avranno un'eco nei cuori

quando la neve sarà un bosco in fiore

quando

quando gli occhi delle ragazze

porteranno in vasi di porcellana i loro fragili

fianchi

quando i bambini mentiranno per uccidere dio

quando la proprietà privata sarà un'orrida leggenda

quando coloro che fanno professione rivoluzionaria

sapranno salutare la bellezza

 

(Da Tomaso Kemeny, La morte è un'altra cosa, Edizioni ETS, 2007)

 

 

Una Madonna dagli occhi a mandorla

in un coro di sante languide

di profeti sfibrati e apostoli

turbinanti nel labirinto

riportano

la luce nel ciclo dei tempi

a rivelare forme invisibili

al mondo, figure consumate

dall'estasi.

 

(Da Tomaso Kemeny, Eterna Disarmonia, Signum edizioni d'arte)

 

 

Tomaso Kemeny è un uomo di grandissimo garbo e smisurata cultura. Arguto, ironico, spiritoso e spirito libero, simpatico e di brillante conversazione ma anche capace di ascoltare l'interlocutore – qualità, globalmente e per i più, in netto calo di fortuna , curioso al punto di non voler ignorare per pregiudizio alcuna forma di comunicazione culturale (dal fumetto a casa sua, in libreria c'è anche un cospicuo numero di albi di Dylan Dog – al calcio – è tifoso interista e ha una miriade di divertentissimi aneddoti da raccontare, in maniera sempre affabulatoria) Tomaso, 69 anni di giovinezza mai doma, docente universitario, operatore culturale e cultore del bello in un'era che pratica, quasi con vezzo, l'apologia del brutto, è un poeta di estrema originalità: banale è un aggettivo che non gli si addice proprio e il suo esprimersi, se non ignora certo il classico, sa entrare nel contemporaneo con forza dirompente. Anticonvenzionale – ha fondato il Movimento Mitomodernista e scintillante.

 

Per chi volesse scoprire Tomaso Kemeny e la sua versatilità niente di meglio che la prossima serata alla Casa della Poesia di Milano, di cui egli è uno dei soci fondatori, martedì 18 marzo, alle ore 21. Nella Palazzina Liberty di Largo Marinai d'Italia, con il patrocinio del console generale d’Ungheria, Hetényi Géza, si svolgerà, da un'idea per l'appunto di Tomaso, l'evento Primavera Transilvana - Tavasz Erdelyben.

Va detto che il nostro, pur essendo un milanese cittadino del mondo, è nato a Budapest giungendo a Milano all'età di dieci anni. La cultura del Paese magiaro ha continuato ad abitargli dentro, profondamente sedimentata (si è largamente occupato anche della poesia di Attila József), in coabitazione con quella acquisita, sua in toto, e con quella dell'amata letteratura anglosassone (ha tradotto e curato l'opera di Lord Byron, così come Ero e Leandro di Christopher Marlowe). Tutto ciò proseguendo peraltro a coltivare un'incessante creatività e produzione letteraria, spaziante fra versi (soprattutto) e testi narrativi (vedi il romanzo Don Giovanni innamorato) o drammatici (La conquista della scena e del mondo).

La serata Primavera Transilvana-Tavasz Erdelyben sarà scandita in tre parti: Hungaria, un concerto articolato per musiche di Béla Bartòk, Franz Liszt, Franz Schubert e Gyorgy Ligeti, a cura e esecuzione per pianoforte di Antonio Battista, geniale clavicembalista, direttore d’orchestra e fondatore-direttore dell’ensemble Novecento e oltre, collaboratore di Pierre Boulez, John Cage e dello stesso Gyorgy Ligeti. Limpopo, un fiume esistente su cui si costruisce un’utopia virtuale, realizzabile in Hungaria, in Transilvania, ma anche in Italia, in particolare ad Arpino: poesie e prose a cura ed esecuzione del poeta transilvano, Géza Szocs, uno dei maggiori poeti viventi di lingua magiara, introdotto dal Professor Amedeo Di Francesco dell'Università di Napoli. E, infine, La Transilvania Liberata, versi epiconirici e lirici a cura ed esecuzione proprio di Tomaso Kemeny, con il contributo straordinario degli attori Franco Sangermano e Adele Succetti.

Poesia e Musica unite nella loro intrinseca bellezza per il potenziamento dell’identità culturale di tutte le minoranze etniche del mondo, potrebbe essere il facile, ma felice e indovinato, “slogan” relativo a questa manifestazione ricca e di qualità.

E, per concludere, una perla, lucentissima e magnificente, gentilmente regalataci da Tomaso. Sue parole, pensieri, sentimenti, emozioni...

 

Alberto Figliolia

 

 

Azione Transilvania...

 

«Adesso ho proprio bisogno di riprendere fiato. E lo posso. Dopo anni di tallonamento di sogni pronti a dissolversi al primo irrompere del tiranno “Realtà”, sono riuscito a tradurre le figure di un potentissimo sogno nel vissuto. Dopo che il mio eposonirico La Transilvania Liberata (effigie, Milano, 2005) fu tradotto dall’amico-poeta Endre Szkàrosi in Erdèly Aranypora (Duna, Budapest, 2006), ho progettato un’azione poetica per iscrivere nel tempo storico il mio lavoro composto secondo i ritmi di un tempo mitico-onirico (il mito essendo un sogno collettivo, il sogno un mito privato).

L’azione si articolava in due tempi. Il mio Virgilio nell’aldilà dell’onirico fu il poeta transilvano Szocs Géza, che mi aspettava a Kolozsvàr, nella valle del fiume Kis-Szamos, luogo scelto per l’incipit dell’azione rituale. Kolozsvàr si vanta per avere dato i natali (23 febbraio 1440) al più glorioso tra i re magiari, Mattia Corvino. Come Dio ha creato l’uomo a sua somiglianza, l’uomo scolpisce statue alla memoria dei propri grandi. Il re, in bronzo, a cavallo, si mostra al lato meridionale della cattedrale di San Michele, circondato da un gruppo di suoi eroici fedeli, tra cui si riconoscono Kinizsi Pàl e Bathori Istvàn. Una lastra di bronzo, collocata sulle pareti della casa natale del re, con mia sorpresa afferma che si tratta di un sovrano rumeno.

Dopo la visita alla cattedrale, leggo dal mio poemetto, per un pubblico che intende l’ungherese, visto con quale attenzione seguono la lettura della traduzione declamata da Gèza Szocs. Il testo originale, quello italiano, scorre come il Ticino, il mio fiume adottivo, la traduzione mi pare che prenda il fluire maestoso del Danubio, fiume di cui mi sento di essere il figlio naturale.

All'alba del giorno dopo, che si manifesta per me come l’alba delle albe, con Szocs che mi accompagna in automobile, percorriamo le strade deserte della bella Kolozsvàr (oggi ha perso il suo nome magiaro per chiamarsi Cluj-Napoca). Ci fermiamo sulle rive del Kis-Szamos. Sballo la pietra sgrossata dal Ticino che alla partenza avvolsi nel velluto della mia passione per la liberazione dei popoli e delle culture. Mi tuffo nelle acque del fiume, le percepisco come il flusso della vita e anche come metafora delle acque delle origini e sul fondale melmoso abbandono la pietra levigata dal fiume a Pavia. Il gesto simbolico vuole propiziare un’Europa patria di tutti gli europei, senza cancellare, o condannare a forzato riposo, l’energia vitale derivante dalle diverse origini culturali ed etniche.

Il vento gelido mi fa rabbrividire, bagnato come sono nel respiro di un novembre in cui a occhi aperti vivo il mio sogno di liberatore poetico, di una persona che trasforma un tracciato onirico notturno in un percorso mitico che sfida la logica della re-re-realtà. Vedo, con gli occhi della mente, il cordone ombelicale abbagliante e inscindibile che congiunge la Transilvania alla terra madre, la piccola Ungheria, da tanto da eventi storici mutilata.

 

«In macchina arriviamo a Nagyenyed. Visitiamo un castello del XV secolo, in gran parte in rovina, sui bastioni una serie di stemmi ricordano gli antichi difensori, corporazioni di artigiani. Alla destra della porta del castello il collegio Bethlen, famoso un giorno per le sue facoltà di giurisprudenza, teologia riformata e filosofia. Qui insegnarono insigni intellettuali come Apàczai Csere Jànos, Szàsz Kàroly, Herepei Adàm e vi studiarono allievi di qualità, Bethlen Miklòs, Bollai Farkas e Kemèny Zsigmond, nomi dimenticati o ignoti a lettori che non siano del luogo e colti. Mi vengono in mente versi del poeta Sztàno Làszlo, frammenti che ricordo della poesia Versi di un poeta etrusco immaginario che io un giorno volsi in italiano:

Verrà il tempo quando non comprenderanno più la tua scrittura.

Forse custodiranno generosamente gli anni le tue lettere.

Non affonderai con la materia soggetta a deterioramento

soltanto non comprenderanno le tue parole…

Ma non avvilirti,

non si raffreddi l’intendimento,

afferra con forza la penna,

puntala verso il futuro.

Dimentica coloro per cui non sei mai esistito.

È per loro che tu scrivi!

 

«A Nagyszeben veniamo ospitati a tavola da un assessore di origine germanica, amico di Szocs. Dibattiamo il problema della conoscenza. L’assessore invoca la tesi platonica secondo la quale abbiamo già visto tutto, in un orbe precedente, così che conoscere non è che riconoscere. Le prime volte non si dimenticano, ma il Kiss-Szamos l’ho visto per la prima volta con l’impressione di avere da sempre conosciuto le sue acque. Forse ciò che si ama inizia là dove s’inaugura il sempre.

L’assessore mette a nostra disposizione due cavalli, perché possiamo giungere alla dignità necessaria per celebrare a Gyulafehèrvàr l’azione poetica sognata-progettata.

 

«Attraversiamo al galoppo lo spazio piano che ci separa dalla tomba di Hunyadi, sul suo sepolcro deporrò il mio poema. Il sole pare infossarsi in gorghi di nere nubi, ma i rari raggi, che paiono guidarci a intervalli, paiono le ali dorate di una procellaria. Voliamo verso la città dove nel 1918 i rappresentanti della corona rumena dichiararono l’annessione della Transilvania alla Romania. Entriamo nella basilica vescovile dell'XI secolo, espressione memorabile dello stile romanico. Furono primi i tartari a violarla, a farne crollare il presbiterio, ricostruito con possenti pilastri nel XIII secolo. La torre sud-orientale fu innalzata per volontà di Hunyadi Jànos. La basilica fu nei secoli saccheggiata, data alle fiamme, lo stesso bassorilievo sui lati della tomba di Hunyadi (un cenotafio, essendo i resti dell’eroe dispersi dagli invasori) porta figure di cavalieri cristiani decapitati dai turchi.

Una lampada e un leggio nella navata centrale segnalano il luogo dell’inizio del rituale. La basilica è colma di testimoni dell’evento, molti i sacerdoti cattolici (spesso perseguitati e martoriati dal regime di Ceausescu) e i novizi. C’è anche una classe di un liceo di Budapest in visita. Cominciamo a leggere Szocs ed io (io con una voce all’inizio gracchiante, per poi riecheggiare nel tempio con una fierezza che mi stringe il cuore e forse anche quello degli altri presenti e, chissà, forse anche quello degli antenati resi invisibili dal tempo) passi in italiano e in ungherese dal poemetto. Vengo all’improvviso preso dal desiderio di riempire il vuoto storico in quelle anime lasciato dal perduto orgoglio di appartenere a un piccolo popolo che la furia dei demoni bellici ha fisicamente separato, ma che è unito e che nulla ha potuto né potrà disgiungere.

Mi stacco dal leggìo e mi avvio in direzione opposta a quella dei raggi neri della cattiva stella che la mia Erdely, la mia Transilvania abbruna, per deporre il serto (dono prezioso composto in primavera dalla Ninfa del Ticino, arcaica e fiorente) sul sarcofago di Hunyadi Jànos insieme al mio poemetto che traghetta la tragedia storica dei magiari nella voce superiore del mito. La Ninfa, affidandomi il serto, sussurrò... “Tutto avverrà secondo il previsto, dal mito sorgerà un’utopia di fratellanza e di libertà nuova”. E poi cantò con voce sublime, in inglese (forse perché la lingua internazionale?), parole per me arcane:

Westwards

Strays my eye,

Eastwards

On we fly.

Fresh eastern wind

O blow us home!

 

«Nel gran silenzio aurorale, sulle sponde del Ticino, le chiesi di esplicitarmi il significato magico-allegorico generato dalla composizione del serto. La Ninfa si coprì il volto con le mani e rispose: “Il serto magico viene formato dall’edera, attributo di Dioniso, e conferma la fedeltà agli ideali guida; dal mirto, sacro ad Afrodite, a esaltare il pregio della bellezza, intesa come valore fondante la civiltà; dall’alloro, sacro a Thor e Apollo, asserzione della inesorabile vittoria della Poesia sulla Realtà, del Mito sulle miserie della Storia; dal rosmarino, rugiada sacra alla Musa Urania (la Musa di Torquato Tasso), garante dell’energia spirituale. Il serto viene annodato da un filo nero, sacro alla Morte, e mallevadore della trasformazione del celebrante secondo un rito di passaggio che porta alla Liberazione, e da un filo d’argento puro, metallo lunare, a proteggere dalle intemperie e dai Demoni, nonché da un nastro candido, l’Albedo atta a riscattare i cuori dei transilvani dalla secchezza e dall’impurità, facendoli palpitare con eroismo astrale”.

Non riesco a dimenticare mio figlio Giorgio, italianissimo, che capisce il mio poemetto epiconirico dal profondo della sua magnanima giovinezza e alzo la voce oltre gli abissi del silenzio storico: “Hunyadi Jànos, svegliati, 'cavaliere bianco' per Filippo Maria Visconti, grande elettore di Ladislao III, voivoda di Transilvania, governatore reggente d’Ungheria in nome di Ladislao il Postumo, tu che facesti risuonare le campane d’Europa per la tua sbalorditiva vittoria su Maometto II a Belgrado, ascolta le parole del mio poema…”, serro gli occhi, le parole a lungo levigate dal Ticino, dal Danubio, dal Kis-Szamos rimangono dietro le palpebre chiuse, scritte col sangue degli eroi magiari, poi scompaiono e in me non risuona che la parola pura, impronunciabile, parola che sorge dagli abissi sacri del silenzio e della speranza.

 

«Ben presto si fa buio, il rosso del cielo diventa viola, poi nero, e poco dopo non possiamo vedere altro che la larga pennellata di un camino lontano.

Lo scalpellino adibito al mantenimento delle statue e delle pareti scolpite della basilica ci invita a cena, insiste con fervore di poterci ospitare. Pare come se il rituale l’avesse svegliato da un lungo incubo. Sua moglie sta facendo gli straordinari in qualche ufficio; la sua suocera, una vecchina senza età con occhi resi enormi dal vissuto, ci fa accomodare in una stanza al cui centro un tavolo rustico è apparecchiato. L’ambiente è indigente, privo di qualsiasi pur modesto ornamento, e l’illuminazione è assegnata a un’unica flebile lampadina, impiccata a un filo che pende dal soffitto intonacato a calce.

Ci viene offerta un’abbondantissima scodellata di peperoni ripieni, con del vino e pane a volontà. Mangiamo solo noi, gli ospiti; la vecchina, lo scalpellino e i suoi tre figli affermano di avere già mangiato. Ci rendiamo conto che stiamo consumando la loro cena, ma rifiutare questa ospitalità premurosa sarebbe criminale. Insieme all’ottimo cibo ci vengono offerti anche dei dolcetti appetitosi alla marmellata di albicocche, ci nutriamo di ottimo cibo e di mestizia.

Lo scalpellino osserva come i sacerdoti di Gyulafehérvàr vantino una resistenza esemplare alla repressione esercitata per decenni dal decaduto governo rosso, e, turbato, ci parla di un padre prima perseguitato dai nazisti e poi torturato dagli uomini di Ceausescu e come non abbia mai cessato di offrire la sua testimonianza di fede e di umanità. Accenna, con pudore, alla ancora mancata beatificazione di questo martire e all’amarezza per la mancata visita alla basilica di Giovanni Paolo II in occasione del suo incontro con i primati della Chiesa Ortodossa a Bucarest.

 

«Mentre puntiamo in macchina su Marosvàsàrhely, sulle rive del Maros, Szocs mi chiarisce l’etimologia di questo nome polisillabico, formato dalla fusione del nome del fiume con la definizione del luogo come mercato (vàsàrhely). Già nel medioevo era un rilevante mercato di bestiame e di cereali. In origine si chiamava Szèkelyvàsàrhely perché si trova nella terra dei Szèkely, componente ragguardevole dell’etnia magiara di Transilvania, in modo ingannevole designati come “Siculi” (in italiano), pur non avendo questa gente nulla in comune con la popolazione della italiana Trinacria (in una pergamena consultata, più tardi, nella biblioteca Teleki-Bolyai, dopo avere visionato, tra migliaia di preziosi volumi, l’unica copia del Magyar Logikàtska, della“Piccola Logica Magiara”, di Apàczai Csere Jànos e l’esotico dizionario Tibetano – Inglese di Korosi Csoma Sàndor, lessi che in latino medievale la città fu definita come “Novum forum Siculorum”). E mercanti tedeschi, con una certa coerenza, la chiamarono Neumarkt (“Nuovo Mercato”); la denominazione rumena Tirgu Mures risulta dalla traduzione fedele del nominativo magiaro.

Mi appisolo. Sogno di essere un mostro con una ferita da fare rimarginare, un dolore da far cessare (la perdita della Transilvania ritrovata?). Al risveglio penso al termine “mostro”, calza ad esseri la cui morfologia e abitudini si allontanano dalle norme etiche ed estetiche, dal costume locale in vigore. Il mostro appartiene a una fauna o ad una popolazione ignota. Sì, sono un europeo, ma un europeo che indossa con disinvoltura l’aggettivo tedesco ungehever (uno che non appartiene alla tribù, uno che provoca paura). Mi trovo a mio più che agio a Roma, Parigi, Londra, Berlino, Copenhagen, Helsinki. Sono figlio adottivo del Ticino, di Pavia, dove insegno, e a Milano mi sento un figlio grato e appassionato. Ma alla morte di mia madre, Edith Barca in Kemeny, gli sfregi della inconsolabile nostalgia non hanno tardato a manifestarsi in tutta la loro potenza, nostalgia del padre Danubio, della perduta lingua madre, della Transilvania, dimora della patria delle mitiche origini. Vivo nella lingua di Torquato Tasso, italianissimo a tutti gli effetti, ma sugli oceani del mio sangue, sulla tolda di una nave probabilmente destinata a un tragico naufragio o a un risibile incagliamento, sono avvolto dal manto madreperlaceo della liberazione di tutte le etnie e culture dalla tirannia degli invasori».


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