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Asmae Dachan. Hassun, la vita dopo la morte 
Dall’altra parte del mare §1. “Dove sono i diritti umani?”
Il piccolo Hassun
Il piccolo Hassun 
21 Agosto 2013
   

Mukhaiyam al Shuhada’à campo dei Martiri, 18 agosto 2013 – Nel luglio 2012 i bombardamenti sul villaggio di Hass, in provincia di Idlib, hanno provocato una strage di civili senza precedenti; molti abitanti sono fuggiti in località vicine, ma con l’inasprirsi delle violenze, sono andati in diversi campi profughi: Siham, 28 anni, in una di quelle offensive ha perso i suoi tre figli. Mi indica la sua tenda Em Mahmud, la giovane che mi ospiterà per la notte e che mi sta guidando all’interno del campo. Siham ci fa accomodare e chiede alla sua vicina se può prepararci un caffè. In braccio ha un bimbo di tre mesi e vicino a lei, attaccata al suo abito, si nasconde sua figlia Ilaf, di 4 anni. “Da dove devo cominciare sorella, se sei qui forse ti hanno già detto che tre dei miei figli sono morti” – mi sussurra con un filo di voce; mentre pronuncia queste parole stringe a sé i due sopravvissuti. Mi racconta che con l’inizio delle manifestazioni pacifiche nel 2011 lei e suo marito, come tanti altri civili siriani, speravano che in Siria potesse finalmente avvenire un cambiamento, che venisse avviato un piano di riforme e che poi Bashar al Assad concedesse la libertà al popolo. Il marito, operaio, aveva preso parte ad una manifestazione a Juret Al Shayah ed era stato ripreso dalla TV di Stato, Al Dunya. Nello stesso pomeriggio una pattuglia di militari aveva fatto irruzione in casa sua per arrestarlo. Siham, sola con i quattro figli, aveva provato una grande paura per le ritorsioni che avrebbero potuto subire. Un vicino di casa, accortosi di quanto stava accadendo, aveva immediatamente avvisato il giovane padre, invitandolo a rimanere nascosto: aver partecipato ad un corteo pacifico lo avevo automaticamente reso un ricercato, un morto che cammina. L’unica via per mettere in salvo la sua vita e quella dei famigliari era la fuga.

L’esercito, in quel periodo, aveva invaso le strade del villaggio, istituendo numerosi posti di blocco; il giorno in cui si è ritirato, gli abitanti del posto hanno capito che sarebbe successo qualcosa di grave: di lì a poche ore, infatti, cominciò il bombardamento di Hass. Siham descrive il primo bombardamento e il terrore si percepisce nei suoi occhi, nell’espressione della figlia, che le si avvicina sempre di più: il rumore assordante dell’aereo e poi l’esplosione, il fumo, il sangue, le macerie, i morti. “Nessuno di noi era abituato a vedere sangue, a vedere morti. Il nostro è un tranquillo villaggio di campagna, siamo gente semplice, non ci sono mai state nemmeno sparatorie”, aggiunge. Il protocollo, continua, era sempre lo stesso: il rumore terribile, la vista dell’aereo, poi il disastro. Ogni volta che si sentiva il rumore o che veniva avvistato un velivolo da lontano si correva tutti al rifugio, scavato sottoterra per mettere in salvo la gente. Inutile spostarsi anche nei villaggi vicini: stesse scene di violenza ogni giorno. Il marito, che intanto si era unito all’esercito siriano libero, ogni tanto col buio riusciva a tornare a casa a stare un po’ con lei e coi figli Aya, 5 anni, Ilaf 3, Hassun 2 e Kutayba un anno; Siham rimase di nuovo incinta.

Un pomeriggio di luglio, era Ramadan, la giovane madre era in casa a preparare il pasto per il tramonto; aveva uno strano sesto senso, una sensazione terribile che la faceva stare male. Così, quando i figli le chiesero il permesso di andare a giocare con i cuginetti a casa dello zio, in fondo alla strada, gli disse di no, che sarebbe stato meglio rimanere vicini, nel cortile. Siham avvertì a un certo punto il rumore dell’aereo; corse subito fuori, prendendo in braccio con sé Ilaf, che stava rientrando per bere dell’acqua. Non fece in tempo a varcare la porta d’ingresso che il peggio era già avvenuto. C’era una coltre spessa di fumo, non si vedeva nulla. A questo punto lo sguardo di Siham si riempie di lacrime. “Ho iniziato a gridare, Aya, Hassun, Kutayba, non vedevo nulla, nessuno rispondeva. Poi tra la polvere ho distinto qualcosa. Era Hassun, riverso a terra, ma il suo corpo era diviso in due. Ho cercato di prenderlo in braccio senza mai lasciare Ilaf, c’era tanto sangue, le gambe erano lontane, staccate, mi piegavo per prenderle, continuavo a gridare per chiamare Aya e Kutayba, correvo da una parte all’altra del cortile senza vederli, senza sapere cosa fare, disperata. La casa di fronte a noi era stata distrutta completamente. Poi ho visto a terra da lontano i miei figli, che sono stati presi in braccio da alcuni soccorritori, che ci hanno portato subito all’ospedale da campo, prendendo Hassun dalle mie braccia. Anche Ilaf era rimasta ferita ad una gamba. Il punto di soccorso era pieno di gente, supplicavo di farmi entrare dai miei figli; una giovane infermiera mi ha portato Ilaf in braccio con una gamba fasciata; ho chiesto di Aya, Hassun e Kutayba. Non mi ha risposto. Ho chiesto se tutti e tre … e lei ha annuito con la testa”.

Nella tenda scende il silenzio, non sentiamo più nemmeno gli schiamazzi dei bambini che corrono nel piazzale polveroso; Siham singhiozza, ma anche Ilaf sta piangendo disperata. Il responsabile del campo di alza in lacrime e se ne va. Non riesce a trattenere le lacrime nemmeno il marito di Em Mahmoud, che si occupa della sicurezza del campo, né le vicine di tenda che sono lì ad ascoltare e non riesco a trattenermi nemmeno io, alla faccia del distacco professionale. Davanti ai miei occhi si materializza la scena: esco di casa e trovo i miei bimbi… la sola idea mi fa impazzire. Ya Allah, ya Allah, o Dio mio, sussurrano tutti. Una donna porge a Siham un bicchiere d’acqua; si calma un po’. “Sorella mia lo sai cosa mi fa più male? Che non ho potuto vederli, mi hanno detto che era meglio per me che me li ricordassi da vivi. Volevo dare loro l’ultima carezza, l’ultimo bacio. Anche al cimitero non sono riuscita a dire una sola parola. Di notte non dormo perché il senso di colpa mi uccide: se fossero andati a casa dello zio forse non sarebbe successo nulla”.

Prendo Ilaf in braccio, le asciugo il viso, le bacio la testa, le dico che è tutto finito e le chiedo come si chiama il fratellino. Mi risponde che si chiama Hassun; Siham lo stringe al petto: quando sono morti i miei figli ero incinta e da tre mesi è nato lui. Ho voluto dargli il nome del fratellino maggiore, così è come se fosse tornato in vita, mi dice Siham con lo sguardo che si riempie d’amore. Poi solleva un lenzuolo e tira fuori il telefonino: ci sono le foto dei suoi bimbi, scattate tre giorni prima della loro morte, mentre si provavano i vestitini per l’Eid, la festa di fine Ramadan. È stato l’unico momento in cui li hanno indossati. Il caffè nelle tazzine si è freddato; Siham mi dice di non berlo, che ne prepara un altro, ma le dico che lo preferisco così. Il dolore immenso che prova non ha cambiato la sua natura ospitale, accogliente, la sua dolcezza infinita. Em Mahmud mi chiede se vogliamo proseguire andando nelle altre tende, a incontrare altre donne, ad ascoltare le loro tragedie. Siham mi prega di restare ancora un po’ e mi dice che posso fotografare i suoi figli. Ilaf, che sulla gamba ha una cicatrice con otto punti, ha un visino dolce, ma un’espressione tristissima, un dolore che forse non potrà rimarginarsi. Ricorda tutto, e di notte, mi dice la madre, si sveglia spesso chiamando i fratellini. Il piccolo Hassun, invece, è il ritratto dell’innocenza. Non sa nulla di cosa è successo, non sa perché è nato in un campo profughi. È l’incarnazione della vita che è più forte della morte.

So già che quello che racconterò a parole non renderà mai l’idea di quello che è accaduto realmente, non come cronaca dei fatti, ma come sensazioni, emozioni, paura, dolore… Vorrei solo che i fabbricanti di armi di tutto il mondo guardassero un istante negli occhi questa donna e la sua bimba superstite e poi le foto dei suoi figli. La loro morte è il risultato finale del loro lavoro. Chi fabbrica armi, fabbrica strumenti per uccidere. Lasciamo da parte la politica e la diplomazia internazionale per rispetto di questi innocenti.

Quando si parla di bombardamenti spesso ci si sofferma sul numero di vittime e sulle proporzioni dei danni, sulla natura dell’ordigno e sulla sua provenienza, senza mai addentrarsi su cosa significhino nel dettaglio. Un aereo che vola, provocando un rumore talmente forte da arrivare a provocare danni irreversibili all’udito, un oggetto concepito e creato per distruggere che si frantuma in mille pezzi distruggendo tutto ciò che è nel suo potenziale raggio d’azione, con decine di vittime innocenti che perdono la vita o rimangono gravemente ferite. Dove sono i diritti umani?

 

Asmae Dachan


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