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Gabriela Jacomella. Come vi racconto una guerra 
Media e conflitti, con la conta (e il peso) dei morti per andare in prima pagina
25 Febbraio 2014
   

Balcani, 1991. L’alba di un conflitto alle porte dell’Europa. La prima di una serie di guerre che in meno di cinque anni porteranno alla distruzione della Repubblica Federale Jugoslava, l’inizio di un’accurata strategia di comunicazione da parte serba per vendere l’immagine di uno scontro etnico senza colpevoli e senza quartieri, dove tutte le parti in causa erano ugualmente responsabili, ugualmente da condannare. «Se al mondo fosse stato mostrato prima che quanto stava accadendo in Bosnia era un’aggressione unilaterale» commenta oggi Carol Williams, all’epoca caporedattore per l’Europa Orientale del Los Angeles Times «si sarebbe potuto agire per impedirne l’espansione in Croazia».

 

Ruanda, 1994. Il Paese sta precipitando nell’abisso. I media internazionali calano in massa sulla capitale, Kigali. Roméo Dallaire, il generale canadese a capo del contingente internazionale di peacekeeping, dirà: «Molti di loro conoscevano poco o niente del Ruanda. Quelli che sapevano, non venivano necessariamente ascoltati. Molti si limitavano a orribili resoconti dei massacri. C’era ben poca analisi sul perché avessimo lasciato fallire un potenziale processo di pace». Quel che è peggio, dopo una manciata di giorni le redazioni richiamano gli inviati: l’attenzione del mondo è già altrove. E il genocidio, quello vero, si scatena in tutta la sua potenza. Ironia della sorte, i giornalisti ritorneranno con l’emergenza rifugiati nel campo di Goma. Regalando un’inaspettata attenzione mediatica agli stessi genocidaires, in fuga dalla vendetta dei tutsi.

 

Ci sono aree del mondo che appaiono a intermittenza sugli schermi dei media internazionali e di cui ci ricordiamo, noi giornalisti, quasi solo in due occasioni: le crisi umanitarie, le guerre. E anche in questi casi ci vuole tempo (e un numero consistente di vittime) perché si decida di andare oltre il semplice lancio di agenzia. Le emergenze più recenti, dal Medioriente all’Africa subsahariana, hanno riacceso i riflettori su parti misconosciute del globo. Ma i media – trincerati dietro le scuse della crisi economica, e di un presunto disinteresse del pubblico – sembrano ostinarsi a ripetere gli stessi errori.

 

Il conflitto divampato in Sud Sudan poco prima di Natale, ad esempio, ha inizialmente goduto di una discreta copertura. Ma nella maggior parte dei casi, è stato rappresentato seguendo un unico parametro di interpretazione: lo “scontro tribale”, in un’escalation verbale rapidamente sfociata in “pulizia etnica” e “genocidio”.

Le cose non stanno esattamente così. La crisi sudsudanese nasce da uno scontro politico: quello tra il governo del presidente Salva Kiir e un’opposizione trasversale e trans-tribale, riunitasi sotto la guida dell’ex vice presidente Riek Machar. Kiir è un Dinka, Machar un Nuer. Entrambi sono stati tra gli attori principali della seconda guerra civile sudanese, con Machar protagonista di una sanguinosa scissione in seno al movimento di guerriglia. La loro lotta per il potere ha inevitabilmente riaperto ferite mai sanate. Inoltre, sullo scacchiere sudsudanese si muovono forze geopolitiche ed economiche – dagli Usa alla Cina, con le Nazioni Unite nella parte del comprimario silenzioso – che concorrono alla formazione di uno scenario ancora più complesso, dove la linea di demarcazione tra buoni e cattivi è quantomeno incerta.

 

Lo stesso è accaduto, poco lontano, con la Repubblica Centrafricana: per i media internazionali il conflitto si è cristallizzato nello schema “islam contro cristianesimo”, noncuranti del fatto che le milizie Seleka comprendano anche gruppi non musulmani, e che lo scontro con gli anti-balaka si fondi principalmente su motivazioni politiche ed economiche. Il potere, non l’etnia o la religione. Che, certo, entrano in gioco in maniera pesante. Ma sono semmai da interpretare come sintomi, e non come cause scatenanti della malattia. Nella migliore delle ipotesi, ridurre il conflitto a uno scontro etnico o religioso è una semplificazione della realtà che non aiuta la comprensione degli eventi. Nel caso peggiore, contribuirà a perpetuare l’idea di un continente – quello africano – che rifiuta ostinatamente di essere “salvato”.

 

Nello sforzo di fornire un pacchetto di informazioni pulito e ordinato, molti media si fermano alla superficie, contribuendo alla creazione di una narrativa parziale e distorta della realtà. E nell’era delle news 24/7, il ciclo produttivo dell’informazione sembra non consentire tempi di approfondimento. L’inviato di turno – per chi può ancora concedersi il lusso degli inviati – si trova catapultato in uno scenario di guerra di cui conosceva poco o nulla fino al giorno prima, e in cui la priorità resta quella di portare a casa la pelle.

Semplificare diventa quindi, se non proprio una virtù, una necessità. Nondimeno, sarebbe uno sforzo dovuto. Soprattutto se a chiederlo sono, ora, gli stessi protagonisti di quelle narrative semplicistiche del conflitto che una volta formulate, vengono riprese e rilanciate all’infinito, tra citazioni e copia-incolla, senza possibilità di verifica né smentita.

 

Nelle prime settimane del conflitto in Sud Sudan, Twitter e Facebook si sono trasformati nelle aule virtuali di un processo ai media occidentali. Quando il Guardian ha pubblicato un reportage centrato sugli attacchi contro i Nuer a Juba, in molti – sudsudanesi e non, incluso chi scrive – hanno denunciato il rischio di una narrativa parziale, che avrebbe potuto scatenare ulteriori violenze su base etnica (e che il pezzo fosse annunciato come scritto “dal primo giornalista occidentale nel Paese” ha solo rinforzato l’idea di un approccio “neocoloniale” alla questione). Su Al Jazeera, l’analista politica Nanjala Nyabola ha posto una domanda provocatoria: «Why do Western media get Africa wrong?».

Quando si tratta di “raccontare l’Africa”, sostiene Nyabola, ai giornalisti internazionali viene attribuita più autorevolezza che ai colleghi locali, spesso accusati di essere parziali, naïfs, impreparati, addirittura corrotti. Ma solo loro sarebbero in grado di interpretare le sfumature di un mondo dalle stratificazioni così complesse. Il problema, semmai, è la scarsità di risorse: in aree dove le infrastrutture sono praticamente inesistenti, le comunicazioni e i trasporti dipendono da quanti dollari si hanno in tasca. E la libertà di espressione, in molti casi, esiste solo sulla carta.

 

Vale per l’Africa, ma anche per il resto del mondo, quello che finisce sulle prime pagine dei giornali solo quando la conta dei morti supera un livello minimo variabile (di norma, si sa, quelli “occidentali” valgono più di chi vive nelle zone meno glamour del pianeta). I giornalisti “paracadutati” sul posto possono avere più strumenti tecnici a disposizione, ma non sempre hanno le competenze necessarie per evitare di far danni. E una notizia inesatta o parziale, rilanciata in tempo reale sulla Rete, può avere conseguenze nefaste. Senza contare che le mezze verità, in un mondo interconnesso e globalizzato, hanno le gambe corte. Meglio ricordarsene, e pensarci su due volte prima di pescare uno stereotipo a caso dal mazzo.

 

Gabriela Jacomella


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