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Per Natale, regalate… Tessa 
di Mauro Raimondi
13 Dicembre 2011
 

Un libro importante, che ogni milanese deve assolutamente possedere: Le poesie di Delio Tessa, edito da Hoepli, è un volume davvero imperdibile. Per questa ragione ve ne parlo proprio in occasione delle imminenti feste, il periodo dell’anno in cui -finalmente- si regalano libri. Perché, diciamocelo, non tutti i libri sono uguali: alcuni vale la pena di leggerli, altri -la maggior parte?- sono soprattutto una perdita di tempo. E visto che in questa nostra vita frenetica di tempo ce n’è sempre poco, meglio andare sul sicuro. Soprattutto quando si dona qualcosa.

Ve lo assicuro: con Le poesie di Delio Tessa farete un’ottima figura. Innanzitutto, chi già conosce il più importante poeta in milanese del 20° secolo (insieme a Franco Loi) potrà apprezzare l’agile traduzione e i commenti di Gino Cervi, autore di un testo simile anche su Carlo Porta. E avrà un altro, incommensurabile godimento: ascoltare quelle poesie che tante volte ha letto, grazie al cd allegato in cui brillano le voci di due attori “meneghini” come Leda Celani e Alarico Salaroli.

Per chi, invece, non ha mai sentito parlare di Tessa, questo libro è l’ideale perché include tutta l’opera poetica dell’erede del Porta. Ogni brano, poi, è preceduto da una chiara spiegazione che aiuta a comprendere meglio sia la poesia sia l’autore, alla cui biografia è dedicata tutta la prima parte del volume (corredato pure di qualche fotografia).

Nato il 18 novembre 1886 in una famiglia della piccolissima borghesia (il padre Senio era ragioniere), Tessa visse i primi 42 anni della sua vita tra la natia casa di ringhiera di via Fieno e la vicina via Olmetto 1, dove si trasferì nel 1895 (e dove vi consigliamo di recarvi in pellegrinaggio durante uno dei prossimi giorni vacanzieri in compagnia del libro La Milano di Delio Tessa scritto da Franco Loi). Diplomato al Liceo Beccaria di piazza S. Giovanni in Conca, Tessa si laureò presso la Facoltà di Legge a Pavia nel 1911 con una tesi sul diritto di lavoro alle donne (a cui era favorevole), trovandosi poi a praticare una professione, quella dell’avvocato, che però non gli era congeniale e non gli diede mai alcuna soddisfazione. Così come la vita sentimentale, che non trovò realizzazione dopo l’iniziale delusione per un amore non corrisposto verso un’amica di famiglia, Iole Bertoglio.

Morto il padre nel 1925, Tessa nel ’28 traslocò nella nuova casa di via Beatrice d’Este 17 con la madre (era figlio unico) e alcuni affezionatissimi amici come la pittrice zurighese Elisabetta Keller e Pier Giorgio Vanni. Uno di loro, Luigi Rusca (creatore della collana Bur per Rizzoli), nel 1932 convinse Tessa a pubblicare L’è el dì di mort, alegher!, nove saggi lirici tutti rigorosamente scritti in dialetto meneghino. Una scelta stilistica controcorrente, dal momento che il fascismo e la critica condannavano l’uso di quel milanese che Tessa aveva imparato alla “scuola” di piazza Vetra, utilizzata proprio in dispregio della cultura dominante impregnata di superomismo dannunziano e retorica. E che impedì all’autore -cautamente approvato da Benedetto Croce ma invitato a utilizzare l’italiano dalla potente Sarfatti- di ottenere il riscontro che avrebbe meritato, come basterebbe a dimostrare la lettura di “Caporetto 1917”, un vero capolavoro ambientato in una Milano dalle due facce, in festa per il giorno dei morti e atterrita da un possibile ritorno austriaco. O il componimento che chiude la raccolta, “La mort della Gussona”, che tocca uno dei temi centrali della poetica tessiana.

Se alla lingua, aggiungiamo poi l’antipatia “caratteriale” per il fascismo, apertamente manifestata in alcune successive poesie come “Ripp Witt Elk”, (dal nome di un -presunto- capo indiano che furoreggiò in tutta Europa), in “Anno VIII”, ne “I tre grint” dove immagina il duce gravemente malato o come nella splendida “A Carlo Porta” in cui si cita la zucca negra del Mussolina, si può facilmente comprendere perché la fama del Tessa si circoscrisse all’interno di un ristretto ambiente salottiero. Dove, peraltro, era molto richiesto come interprete di poesie in milanese, sue e del Porta, perché leggendole si trasfigurava dimenticando la sua innata riservatezza e regalando performance da vero attore.

L’è el dì di mort, alegher! è l’unica raccolta uscita mentre Tessa era in vita. Ma nel testo della Hoepli, oltre a quelle già citate, si possono trovare anche tutte quelle poesie pubblicate postume grazie a Fortunato Rosti, con cui Tessa aprì il suo primo studio di avvocato nel 1914 in via della Spiga. Il carissimo amico le conservò dopo la morte del poeta, avvenuta il 21 settembre 1939 per una banale infezione dovuta ad un ascesso mal curato. E così potrete ammirare quei «continui inserti, frammenti di dialoghi, commistioni di presente e passato che raggiungono effetti di grande suggestione quasi cinematografica» -come ha scritto Castellaneta ne Il Dizionario di Milano- che appaiono anche in “De là del mur”, accostando Tessa ad esperienze letterarie europee (al contrario di chi considera il dialetto una modalità di espressione “inferiore”: quando si è poeti, lo si è in qualsiasi idioma del mondo…). Oppure l’invettiva civile de “La poesia della Olga” (personaggio realmente esistito, “direttrice” di uno di quei bordelli che Tessa frequentava), dedicata all’amico Toscanini. E i toccanti ritratti di una città che Tessa amava e ben conosceva, avendo attraversato le tante Milano dell’epoca: quelle del feroce monarchico Bava e dell’Esposizione Universale, dello scontro fra interventisti e no prima della Grande Guerra e del “biennio rosso” postbellico, della nascita e affermazione del fascismo. Una città, però, che ora stava scomparendo per i colpi di un maledetto “piccone risanatore”, come ci appare nel cupo “Navili”, in “Finester” o nell’originale “I pissatoj vecc de Milan”.

Vecchio, come amava definirsi Delio Tessa. Il quale, tuttavia, si appassionò a tal punto a una delle novità del tempo, il cinema, da scrivere, nel 1932, una sceneggiatura intitolata Vecchia Europa che Piero Mazzarella avrebbe rappresentato con grande successo al “Piccolo Teatro” esattamente settant’anni dopo. Settanta, perché per Tessa e la sua immensa poesia il tempo non passa mai. E rimarranno vivissimo finché quelli che amano Milano continueranno a ricordarli. Un dovere, oltre che un piacere, che siamo certi si perpetuerà nei secoli. Saludi


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