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Carlotta Zanobini: L'inutilità di un sentimento.
Pablo Picasso: donna che piange
Pablo Picasso: donna che piange 
26 Luglio 2007
 

Quando mesi addietro ho tracciato le linee del Discorso Amoroso su TELLUSfolio ho immaginato racchiudessero molte voci e generi e autori-autrici tanto da ottenere una vera e propra “Febbre d'amore” (che fra l'altro, lo anticipo, sarà anche il titolo del nuovo volume di TELLUS, il 29, in uscita a giugno o settembre 2008) in continua salita e discesa in chi scriveva-scrive e in chi leggeva-legge su questo giornale-rivista. Oggi, con tenerezza, ascrivo a questo disegno anche una sorpresa, sorpresa grande, e cioè la voce narrativa di Carlotta Zanobini, che nei primi anni novanta fu mia studentessa all'Istituto Tecnico per Ragionieri di Ponsacco, paese della Toscana, a pochi chilometri da Pontedera. Ho anche altri racconti brevi. I lettori li conosceranno nel tempo lungo di un giornale-rivista sul web. Ma sicuramente questa presenza è la testimonianza, vivace e chiara, che la linea editoriale di TELLUS e TELLUSfolio è quella di aprire il più possibile anche a chi si dedica alla scrittura al di fuori dei luoghi canonici del mestiere di scrivere o di rifletterci sopra intellettualmente.

 

Claudio Di Scalzo

 

 

CARLOTTA ZANOBINI: L'INUTILITÀ DI UN SENTIMENTO

 

Ventotto anni che siamo insieme. Ci siamo conosciuti al liceo, ero appena una ragazzina. Cresciuta in fretta, la scuola era la mia sola isola di libertà e i libri, l’unica eredità concessa. Mia sorella doveva frequentare la mia stessa scuola. Il vestito nuovo (anche i sandali), i libri foderati ed il cestino della merenda appoggiato sulla sedia, vicino alla porta di casa. Tutto pronto. Stava uscendo per asciugarsi i capelli appena lavati, un attimo di esitazione sulla porta, si volta vero di me, il sole dietro di lei la oscurava completamente rendendo nitidi solo i contorni. Socchiusi gli occhi per mettere a fuoco l’immagine, ma il sole era troppo forte e, così... così non ho neanche l’ultimo ricordo della faccia di mia sorella.

Dopo la scuola lavorava da Lina, la migliore sarta del paese, quella che ha la stanza vicino al pollaiolo. Giorno per giorno le insegnava davvero il mestiere, con pazienza e dolcezza. Anche il vestito che avrebbe indossato il suo primo giorno di scuola lo aveva cucito insieme a Lina. Sarebbe piaciuto anche a me imparare a ricamare come loro, ma lei era la maggiore ed io ancora troppo piccola. Così, dopo, ho creduto di dover prendere il suo posto, invece l’ha sostituita mia madre.

Sono diciotto anni che vivo insieme a lui, ho due figli: Alberto e Miranda.

Mi sento una macchina. Ho sempre fatto tutto quello che dovevo. Ho finito la scuola scelta da mia sorella per non sprecare altri soldi per comprare nuovi libri, ho lavorato nell’osteria di mia zia, perché era giusto così, ho sposato lui perché mi ha rassicurata e curata per tutti quegli anni. Ed era giusto così. Alberto è nato a maggio, Miranda a novembre dell’anno successivo. Tutto giusto così.

Ora credo di non farcela più. Non riesco a fare cose giuste.

La settimana passata ho fatto tutto come al solito: sveglia all’alba, ho dato da mangiare agli animali, poi la doccia, mi sono vestita e sono scesa in paese per fare la spesa. Uscendo dalla bottega un raggio di sole mi ha trafitto lo sguardo ed ho rivisto l’immagine di mia sorella. Come se il tempo si fosse fermato. Un calore improvviso, un sussulto. A testa bassa, di corsa verso casa, il respiro mi cresceva nel petto, non capivo perché. Entro in casa, chiudo la porta con violenza, chiudo le tende, spengo la luce poi mi sono accasciata vicino alla colonna dell’ingresso e sono scoppiata in un pianto terribile, tanto da non darmi il tempo di riprendere fiato, di deglutire.

Sciolta in un bagno di sudore, la pinza mi scivola dai capelli anch’essi fradici, sono corsa di nuovo sotto la doccia. Al buio. Mi strofinavo il viso, le gambe, le braccia, le spalle e ancora la faccia con più forza, quasi mi schiaffeggiavo. Ascolto lo scroscio dell’acqua che rimbalza nel piatto di marmo della doccia. Il pianto aveva perso l’impeto iniziale, ma non cessava. Non riuscivo a smettere, ho anche pensato che forse il rumore dell’acqua che scendeva mi stimolasse le ghiandole lacrimali… non lo so. Sento Spillo, il nostro cane che abbaia. Solitamente è lui che rientra a casa per pranzo. D’improvviso sono ritornata la donna che due attimi prima stava uscendo dalla bottega di alimentari. Mi sono asciugata, pettinata e vestita normalmente. Sono andata ad aprire la porta a mio marito e lesta ai fornelli per preparare qualcosa di buono. Mi chiede come mai è tutto chiuso, la tenda, le finestre, la luce. Senza pensarci un attimo rispondo: è il caldo, fa molto caldo e ho cercato di ripararmi.

Sono ventotto anni che gli unici argomenti che affrontiamo sono il tempo e le conseguenze che questo ha sulle nostre vite e sulle nostre coltivazioni. Tra poco sarà di rientro anche Alberto, Miranda invece rimane da una sua compagna tutto il pomeriggio.

Dopo pranzo sono tornati tutti alle loro occupazioni. Anch’io. Ho riattaccato a piangere come non so neanche spiegare, soprattutto di nuovo senza ragione. Stavolta corro in camera da letto, afferro entrambi i cuscini e tento di soffocare il pianto, o almeno il rumore. Non ci riesco, soprattutto non riesco a capire il motivo di tale impulso. Non è giusto, e poi, neanche mi ricordavo che le lacrime erano salate. Il silenzio intorno un po’ mi rassicura, mi sussurra che non c’è niente da temere e da cui scappare. La cosa strana è che il pianto viene e se ne va con una velocità incredibile.

Poco dopo suona il campanello, gli occhi mi sono seccati, come prima, quando lui è rientrato a casa. La signora Teresa mi conferma la cena per questa sera alle otto. “Mi scuso, ma verranno solo mio marito e i miei figli, da questa mattina ho qualche linea di febbre e non vorrei peggiorare la situazione”, le dico. Ringrazio di nuovo e richiudo la porta. Le mani dietro la schiena, la testa rivolta verso l’alto, faccio scorrere la schiena lungo la porta, piego le ginocchia giù giù, fino ad arrivare per terra. Sdraiata sul pavimento a pancia in su divarico gambe e braccia e fisso il lampadario. C’è un ragno che dal braccio del lampadario stende la sua tela fino all’angolo alto della porta. Non lo avevo notato prima. Inizio a sentire il ghiaccio del pavimento sulla schiena e penso che ogni mia azione è finalizzata ad ottenere approvazione dagli altri. Il lavoro, la casa, mio marito. L’unica cosa che faccio spontaneamente, senza aspettarmi niente in cambio è accudire i miei figli. Per i miei genitori ormai non posso fare più niente. Non ho mai potuto fare niente. Volevano una figlia, l’avevano e l’hanno persa.

Stessa storia i giorni a seguire. Come le maree crescono e si riabbassano, così, inaspettatamente e senza preavviso, i miei occhi si riempiono di lacrime e si riasciugano.

Domenica scorsa sono andata alla messa, avevo promesso alla signora Teresa, dato che non avevo partecipato alla sua cena, di accompagnarla in parrocchia, così avremmo fatto due chiacchiere. Ci sediamo da sole nella terza panca. Un attimo prima dell’inizio della funzione si siede vicino a me un uomo, con un profumo gradevole, di pulito, inamidato. Senza voltarmi, tutto quello che potevo vedere erano le scarpe, i pantaloni ben stirati e le mani. Grandi. Avevo la sensazione di essere osservata, ma forse l’avrei solo voluto. Dei piccoli movimenti con la testa mi permettevano di aumentare il mio angolo visivo, non potevo guardarlo, non sta bene. Ho notato una leggera camicia di lino grigia e una folta barba scura. La messa era giunta al termine, lo sconosciuto si volta verso di me e mi saluta, io non ho risposto al suo saluto, sono rimasta incerta davanti al suo sguardo. Mi stava guardando, sì, ma i suoi occhi erano talmente velati che, sono sicura, non saprebbe riconoscermi!

La signora Teresa parla a lungo nel viaggio di ritorno, ma non una parola mi distoglie da quegli occhi, quel volto burbero, o forse solo provato da un dolore. C’era un’incongruenza tra il suo sguardo e l’energia del suo corpo. Mi trasmetteva calore, presenza, ma gli occhi erano lontani, dissociati dal resto, altrove.

Rientrata a casa finisco di sistemare le camere e la cucina lasciata da fare per andare al paese. Tutto trascorre come sempre, come un film che basta riavvolgere la pellicola e rivivi ogni volta esattamente le stesse scene, le stesse emozioni. La sera, prima di coricarmi, passo un po’ di tempo vicino allo specchio, il mio non è rassicurante come quello di Biancaneve, anzi, mi evidenzia le nuove rughe, i capelli bianchi che via via aumentano, gli zigomi che iniziano a scendere. Mi massaggio le guance, il collo e provo a tirare in su gli zigomi, quando li ho ben distesi… “Non sono ancora tanto male” penso. Sciolgo i capelli e come d’abitudine li pettino per togliere i nodi. “Magari potessi sciogliere tutti i dubbi e le incertezze, le fatiche della mia vita con un colpo di spazzola” penso ancora. Indosso la camicia da notte e mi sdraio accanto a mio marito. Lui dorme, russa, mi accosto a lui, era più forte il calore dello sconosciuto che quello di mio marito. Intanto non riesco a liberarmi da questo sguardo. Mi giro su un fianco, poi sull’altro, supina, non riesco a prendere sonno. Torno i cucina e bevo un bicchiere d’acqua… che non scende e si blocca tra la trachea e l’esofago.

Di fatto non avevo nessuna voglia di andare a messa questa mattina, sono andata per fare un favore alla signora Teresa.

Di fatto, dopo quella lunga notte, il sabato ero già frenetica. Non aspettavo altro l’indomani per tornarci.

Questa tiritera continuò per settimane e mesi. Non ho più avuto il piacere di incontrarlo, in compenso lo sognavo tutte le notti, gli avevo dato un nome, una storia e soprattutto mi ero spiegata il motivo dei suoi occhi velati. Il bello è che ogni notte il sogno era il continuo della notte precedente. Avevo un’altra relazione. Il fatto è che era talmente finta che non potevo neanche raccontarla, non potevo accusarmi di tradimento solo immaginando il nome di uno sconosciuto, o sognando di abbracciarlo! Non potevo neanche sentirmi giustamente in colpa. È la mia condanna. Sono arrivata perfino a sperare che succedesse davvero, così una volta nella vita avrei pianto per una mia colpa. Che poi… forse avrei pianto… forse no. Sarei stata dispiaciuta per i miei figli perché perderebbero l’ideale della famiglia unita, (non della famiglia felice, sono due ragazzi molto sensibili, probabilmente si sono già fatti una loro idea della felicità), tanto ormai sono grandi. Per il resto… non so. Senza scendere in particolari troppo personali, mio marito a fatica mi chiede come ho passato la giornata, non credo che gli affliggerei un dolore immane se me ne andassi. Sarebbe solo una ferita d’orgoglio, quella che sente ogni uomo quando viene lasciato dalla sua donna. Magari più difficile per lui trovare una cuoca che lo esaudisca in ogni sua richiesta, una che lo aiuti nei campi noncurante dei calli alle mani che le crescono, come i pomodori nell’orto.

Oggi, 19 giugno 1963, compio 48 anni. Stamani guardandomi allo specchio ho espresso un desiderio. Quello di invecchiare ancora più in fretta. Non voglio sapere che fine ha fatto Alessandro (lo sconosciuto), non m'interessa arrivare a settembre per sapere come andrà il raccolto della nostra uva. I miei figli sono grandi ed autonomi, ho dato loro tanto di quell’amore che hanno la scorta per una vita intera. Voglio invecchiare per farmi indurire il cuore così tanto da non sentire altro, solo il rumore del battito. Tanto, sentire il resto a che cosa mi è servito?

 

Carlotta Zanobini


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