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Rosa nel Pugno. Appunti per un dibattito
Giovanni Falcone
Giovanni Falcone 
20 Aprile 2006
 
Qualche “appunto” in relazione alla riflessione e al dibattito in corso attorno alla Rosa nel Pugno, come organizzare la nuova “cosa”, che fisionomia prefigurare e obiettivi porsi.
 
Preliminarmente è opportuno cercare di non farsi fuorviare dal luogo comune, quello di chi sostiene che si sarebbe privilegiato il terreno dei diritti civili, penalizzando i problemi sociali.
Non è così. Non lo è stato al tempo del divorzio, diritto civile, ma anche grande e straordinaria conquista sociale. Non per un caso la prima divorziata e divorzista è stata una popolana romana, comunista verace, si chiamava Argentina Marchei. Non lo è stato al tempo dell’aborto: diritto civile, ma soprattutto anche grande tema e problema sociale.
È un grande problema sociale oggi quello della giustizia, del modo in cui non è amministrata; del carcere, di come nel carcere si costringono a vivere decine di migliaia di persone; di come una giustizia sia paralizzata e si impedisca innanzitutto ai magistrati capaci e volenterosi di fare il loro lavoro con scienza e coscienza; dei costi, enormi e assolutamente improduttivi, dell’attuale apparato giudiziario.
È grande tema sociale e non relegabile nella sola sfera del diritto “civile” la battaglia per i PACS o della libertà di ricerca e cura scientifica. È tema sociale la legge Biagi, da attuare e perfezionare e che sarebbe da sciagurati abolire. È tema sociale l’agenda Giavazzi: e magari non sarà soddisfacente e risolutiva, ma intanto quelle riforme autenticamente liberali e che sono indispensabili per uscire dalle sabbie mobili in cui ci ha fatto sprofondare il governo Berlusconi sarebbero un ottimo inizio per consentire che questo paese possa risalire la china.
Sono temi sociali quelli fissati nella nostra agenda di Fiuggi; evocare Blair e Zapatero, assieme a Loris Fortuna è indicare al paese anche una politica e delle scelte economiche e sociali.
 
Seconda premessa. C’è chi vuole cristallizzare i radicali come movimentasti e chissà, forse, perfino, extraistituzionali. È opportuno rivendicare che per tradizione, storia e vocazione i radicali sono sempre stati “istituzionali”: legge, diritto, legalità sono il leitmotiv di sempre. Sempre i radicali si sono mossi volendo e cercando di “governare” i fenomeni, le situazioni. Governare, azione di governo nelle istituzioni. Marco Pannella per tutta la vita ci ha detto, instancabile: per la vita del diritto, per il diritto alla vita.
Dunque: siamo contro il sindacato? Sì, come è contro Pietro Ichino. E siamo contro i magistrati esattamente come lo era Giovanni Falcone; e in materia di libertà ricerca scientifica e di cura siamo “nazisti”, per usare il gentile epiteto di Carlo Giovanardi, esattamente come lo sono Umberto Veronesi, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack; come era nazista ante-litteram Tommaso Moro, favorevole all’eutanasia e che la chiesa cattolica ha fatto santo protettore dei politici.
Vale la pena di rimarcare che sarebbe un errore gravissimo, forse mortale, se si dovessero ammainare le nostre bandiere e rinunciare ai nostri “colori” che hanno così ben connotato la campagna elettorale che ci siamo lasciati alle spalle e che ci hanno caratterizzato. Al contrario, quei temi e quelle questioni vanno ulteriormente agitate, valorizzate.
 
Laicità, laicità, laicità. Dobbiamo essere molto rispettosi verso i cattolici, ma questo rispetto non significa accettare ogni tipo di angheria che viene dagli inquilini del Vaticano: che certo, hanno chiesto scusa a Galileo, e per gli abomini commessi cento, duecento, cinquecento anni fa in nome della fede e soprattutto a salvaguardia del potere clerical-temporale di cui disponevano. Ma chiedono scusa, e contemporaneamente tutti i giorni perpetrano nuovi massacri. Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, attendono ancora d’essere “riabilitati”, vale ancora – non essendo stato rimosso – il consiglio a non leggere I Promessi Sposi, che colpevolmente deridono in don Abbondio la viltà dei falsi pastori cristiani. E andando di questo passo, tra breve papa Ratzinger e il cardinal Ruini pretenderanno che si chieda scusa per Porta Pia.
 
Questo paese deve ritrovare la sua dignità e il suo decoro che si è smarrito.
Certamente si è smarrito – nonostante si sia cercato di segnalarlo in ogni modo – il peso e l’influenza di una cosa che si chiama televisione. Già nel 1961 Aldo Visalberghi, in Responsabilità della televisione avvertiva di come in America si era rilevato che la tendenza ad acquistare un televisore appariva direttamente proporzionale al reddito, ma inversamente proporzionale al grado di cultura (in Rivista Pirelli. Televisione e cultura; giugno 1961). La stessa situazione si riscontra in Italia, e più che mai dilatata. Dunque, ben vengano le pagine e i servizi di giornali come Corriere della Sera o Repubblica. Fatto è che è la televisione a essere il dominus delle scelte e dell’informazione politica.
Berlusconi lo ha compreso benissimo; il centro sinistra assai meno; e ha assistito impotente e assente alla grande rimonta del leader della CdL; gli hanno anche consentito di nutrire e far crescere i suoi avversari di comodo (ma che saranno spine nel fianco di Prodi), Fausto Bertinotti e Oliviero Diliberto. I preziosi dati che tutti i giorni Marco Beltrandi e il Centro di Ascolto hanno fornito, non sono stati utilizzati politicamente se non in minima parte; chi sfoglia l’Unità vedrà che si limita a polemichette ad personam contro il direttore del Tg1 e cinque giorni su sette a finestrelle di poche righe dove immancabilmente Tg1 fa schifo, Tg2 così così, Tg3 va sempre bene. Tutto qui, solo questo. Nulla sui telegiornali del mattino, del pomeriggio, della notte, sui programmi della rete, sulla radio, sulle emittenti Mediaset… C’è insomma un urgente e grave problema di diritto all’informazione da tutelare e da coniugare con informazione dei diritti. È questione urgente, che va affrontata. Impar condicio, sostiene spesso, a ragione, Beltrandi. Aggiungiamo: gran mendacio.
 
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 20/04/2006)

 
 
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