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Gianfranco Spadaccia. Una voce anticoncordataria alla commemorazione del 25ennale della revisione del Concordato
20 Febbraio 2009
 

La celebrazione è stata indetta e organizzata dalla Fondazione Camera dei deputati. Sono intervenuti il Presidente della Camera, Gianfranco Fini e il Presidente della Fondazione, Fausto Bertinotti. Ha svolto una relazione il professor Margiotta Broglio. Sono intervenuti inoltre nel dibattito Gennaro Acquaviva, diretto collaboratore di Bettino Craxi, Umberto Cardia, consigliere di Enrico Berlinguer e Tullia Zevi, già presidente della comunità israelitica romana. Pubblichiamo di seguito l'intervento di Gianfranco Spadaccia, all'epoca della revisione del Concordato deputato radicale.

 

 

Desidero ringraziare il presidente Fini e il presidente Bertinotti per aver voluto che fosse presente in questa rievocazione anche una voce anticoncordataria, di uno di quei radicali che espressero nel 1984, sulle orme di Ruffini e di Croce e su quelle di Gaetano Salvemini, di Piero Calamandrei e di Ernesto Rossi,la loro opposizione al nuovo Concordato in quasi assoluta solitudine se si escludono in quelle aule parlamentari poche altre voci critiche (ne voglio ricordare in particolare una, quella del cattolico Corrado Guerzoni). In quelle aule parlamentari perché, come la storia di questo paese ha dimostrato, la minoranza a cui appartengo ha saputo anticipare, interpretare e rappresentare anche fuori di esse, per oltre quaranta anni, nonostante l’isolamento a cui è stata spesso condannata, gli orientamenti della maggioranza del popolo italiano. E sarebbe così anche oggi se in questo paese fosse ancora possibile il libero confronto delle opinioni e l’einaudiano “conoscere per deliberare”.

In alternativa alla revisione del Concordato, noi proponemmo allora che si procedesse invece alla rinegoziazione del Trattato lateranense. Era necessario a nostro avviso eliminare un trattato ormai in stridente contrasto con la democrazia e con la Costituzione ma non avevamo alcun intento punitivo o limitativo dell’indipendenza e sovranità della Stato della Città del Vaticano tanto che Marco Pannella avanzò anche l’ipotesi di un ampliamento delle concessioni territoriali, per conciliare le nuove e maggiori esigenze organizzative del Vaticano e le esigenze urbanistiche di decongestione del centro storico della capitale. Quanto ai rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica pensavamo che il nuovo regime potesse e dovesse essere concordato sotto la copertura dell’art. 8, al pari di quello delle altre confessioni religiose. Io non so se abbia ragione Michele Ainis nel considerare il secondo comma dell’art. 7 una norma anche transitoria voluta dal costituente in attesa di una nuova disciplina. E tuttavia mi pare difficilmente contestabile che esso debba essere considerato una norma d’eccezione rispetto sia alla regola generale della reciproca indipendenza e sovranità della Chiesa e dello Stato, contenuta nel primo comma dello stesso art. 7 sia rispetto al principio fondamentale della libertà religiosa quale si desume dall’art. 3, dall’art. 8, dagli art. 19 e 20 della Costituzione.

Si decise invece lasciare in vigore il Trattato e di porre il nuovo concordato ancora sotto la copertura del secondo comma dell’art. 7, e per farlo si è dovuto qualificarlo come un accordo contenente semplici modifiche mentre si è trattava di una vera e propria novazione giuridica. Si sceglieva così di perpetuare una situazione di privilegio per la Chiesa cattolica e di discriminazione per la altre confessioni e convinzioni religiose, ma si accentuava anche la ambiguità tra Chiesa–Stato soggetto di diritto internazionale e Chiesa comunità religiosa italiana con il riconoscimento giuridico della Conferenza episcopale italiana quale soggetto di intese successive fra essa e lo Stato, in rappresentanza della Chiesa italiana.

È una esagerazione radicale e anticlericale? Quando mi si citano le intese con le altre confessioni religiose come testimonianza di eguaglianza e di libertà religiosa, io rispondo che quelle intese sono tutte difensive rispetto ad uno Stato che ha ancora vigente la legge sui culti ammessi. Nessuno potrà convincermi che il mantenimento in vigore del Trattato fascista che faceva della religione cattolica la religione dello Stato o la mancanza di una legge di attuazione costituzionale del principio della libertà religiosa, a venticinque anni dalla revisione del Concordato, siano dovuti al caso.

Non analizzerò i nuovi privilegi che la Chiesa ha visto rafforzare rispetto al concordato lateranense: dai maggiori vantaggi economici assicurati dall’8 per mille al regime all’insegnamento religioso, dall’incerto confine che separa la territorialità della Chiesa italiana e l’extraterritorialità vaticana all’equivoco ruolo giocato grazie ad essa dallo IOR in molte vicende finanziarie, dalla situazione di sostanziale disuguaglianza rispetto alle altre confessioni al tentativo infine in gran parte riuscito di ripristinare in materia di matrimonio concordatario - dopo la legge del divorzio - la prevalenza del diritto canonico sul diritto dello Stato. Quanto ai nuovi benefici che, grazie alle intese con la CEI o per benevola e unilaterale concessione dello Stato sono stati conseguiti, rinvio ai recenti libri di Michele Ainis Chiesa padrona e di Curzio Maltese, La Questua.

Dovendo tuttavia esprimere un giudizio sulla situazione che si è determinata negli ultimi anni e sulle prospettive, credo che non si possa prescindere dalla considerazione dei profondi cambiamenti che sono intervenuti nella politica italiana. Dal momento della firma del Presidente Craxi e del Cardinale Casaroli ad oggi sono intervenuti mutamenti che non è esagerato paragonare a quelli verificatisi dopo la caduta del fascismo e la nascita della Repubblica. Nei primi quaranta anni della Repubblica, nonostante la determinante presenza di un partito cattolico, il concordato fascista era stato applicato e interpretato da una generazione politica che si ispirava alla idea, per dirla con Spadolini, di un “Tevere più largo”. All’ombra della Costituzione il vecchio Concordato era venuto esaurendo la sua funzione, qualcuno ha detto che stava divenendo un ramo secco, destinato ad essere presto superato se non fosse intervenuto un nuovo concordato. Almeno nelle intenzioni forse illusorie e contraddittorie dei suoi maggiori protagonisti anche il nuovo Concordato avrebbe dovuto ispirarsi a quella stessa visione. Non solo quella generazione ma anche quella visione è oggi del tutto scomparsa. Sono stati cancellati da tangentopoli il partito socialista e gli altri partiti laici che dall’interno del governo avevano fatto da sponda al movimento delle riforme laiche e dei diritti civili negli anni 70. Sono scomparsi anche i due partiti che avevano votato pur da schieramenti contrapposti l’art. 7, sostituiti da forze politiche che poco hanno a che fare con essi: la DC e il PCI che io ho avversato da radicale, traevano dal proprio radicamento sociale e non solo dal loro potere la propria forza e la propria autonomia e un loro senso dello Stato. Trattavano con la Chiesa e con il Vaticano in base a una loro idea dei rapporti fra Stato e Chiesa. A quella forza oggi corrisponde la debolezza e la sostanziale delegittimazione dei loro eredi, partiti in perenne trasformazione, protagonisti di una transizione cui non hanno saputo dare alcun credibile e stabile sbocco democratico e per questo spinti ad appoggiarsi alla forza della Chiesa e delle istituzioni ecclesiastiche.

Non meno rilevanti sono stati i cambiamenti intervenuti nella vita della Chiesa. Il Concilio Vaticano II è ormai lontano, e non solo nel tempo. E lontana e dimenticata è la Gaudium et Spes. A chiedersi oggi “Chi ha paura del Vaticano II?” non sono dei radicali ma due cattolici come Melloni e Ruggeri, insieme a uno stuolo di teologi e di storici della Chiesa di ogni parte del mondo. Mentre teodem e atei devoti si propongono rispetto alle Gerarchie come avanguardie di una condanna generalizzata non solo di laici, radicali, anticlericali ma anche di cattolici, anche eminenti, non allineati.

I frutti amari di questa situazione si sono colti nel dibattito e nello scontro che si è verificato nelle ultime drammatiche vicende del caso Englaro, che ha reso evidente il tentativo di imporre su questioni che interrogano la coscienza di ognuno una unica visione religiosa ed etica con l’effetto di travolgere l’idea stessa di laicità, che è lo spazio della convivenza e del confronto fra diverse concezioni etiche e religiose, in definitiva lo spazio della libertà e della democrazia. Su tali questioni è possibile dividersi, si può vincere e si può perdere. Invece si è affermato che sulla vita non si vota, negando in radice la possibilità stessa di un confronto democratico e la legittimità di ogni altra posizione.

Lo Stato e la Chiesa sono ancora “ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”? Nei giorni scorsi abbiamo sentito esprimere giudizi durissimi su un atto del Presidente della Repubblica da due Cardinali di Curia senza che nessun rappresentante del Governo sentisse il bisogno di difenderne le prerogative e l’autorità esercitate nell’ambito della indipendenza e sovranità dello Stato italiano. Lo stesso è avvenuto quando il Presidente della Camera è stato attaccato dall’Osservatore Romano e da altri esponenti della Chiesa per aver sottolineato che il ritiro della scomunica dei vescovi lefebvriani all’interno della Chiesa comportava, per le affermazioni di uno di essi, il pericolo di una rilegittimazione di gravi forme di antisemitismo. Per sapere cosa significa reciproca indipendenza e sovranità fra lo Stato e la Chiesa bisogna guardare altrove. Quando in Germania è stata la Cancelliera cristiano democratica Angela Merkel ad esprimere in maniera anche più netta le stesse preoccupazioni del Presidente Fini, non a titolo individuale ma a nome del Governo tedesco, non solo non ha ricevuto rimbrotti e condanne ecclesiastiche ma lo stesso Pontefice ha ritenuto il giorno dopo di intervenire personalmente con una risposta e un chiarimento pressoché immediato di netta condanna del negazionismo.

Mi si può obiettare che attribuisco al Concordato responsabilità che devono essere invece caso mai imputate alle forze politiche e alle maggioranze parlamentari. Non è così. Il concordato ha fornito alla Chiesa le basi ed ha creato le premesse di questo travolgimento della laicità e della stessa libertà religiosa, non solo la libertà religiosa dei non cattolici e dei non credenti, ma anche e in primo luogo quella dei cittadini di fede cattolica. Come già quello del 29 anche quello dell’84 pretende di attribuire alla Chiesa non un primato pastorale ma la rappresentanza esclusiva dei cittadini cattolici: una pretesa che nessuno Stato laico potrebbe accettare e che non ha alcuna base sociologica perché in Italia i cattolici praticanti sono una minoranza e gran parte di coloro che si professano cattolici professano idee, anche sui temi etici, difformi dal magistero della Chiesa.

E tuttavia anch’io come Stefano Rodotà ritengo che gli effetti di questo Concordato non possano essere valutati solo con le categorie della separatezza o della ingerenza fra Stato e Chiesa. Siamo infatti oggetto di una offensiva che va ben oltre i limiti della sola Repubblica italiana, come scrive nel suo libro Perché laico: «Da tempo i vertici della Chiesa hanno intrapreso una campagna assai determinata per affermare il primato della loro dottrina ben al di là della legittima predicazione della fede dal momento che ad essa viene attribuito un valore normativo che va oltre l’ambito dei credenti e configura obbligazioni per gli Stati e per le Organizzazioni internazionali».

Quando con grande saggezza gli statisti del Risorgimento, in maggioranza cattolici liberali, con la bella legge delle guarentigie – una legge che ha garantito per oltre mezzo secolo il libero sviluppo del cattolicesimo – attribuirono unilateralmente al Papa la sovranità su un territorio sia pure minuscolo pensavano che esso dovesse essere soprattutto, se non esclusivamente, una garanzia fisica di libertà per la Chiesa da ingerenze esterne. Non potevano immaginare che la Chiesa avrebbe utilizzato lo Stato della città del Vaticano come strumento di politica attiva a livello internazionale con il riconoscimento presso l’ONU e la costante azione di lobbying esercitata sugli organismi dell’Unione europea. Il confronto travalica dunque i confini dello Stato per proiettarsi a livello sopranazionale. In esso la Chiesa non solo rivendica il monopolio della morale e della religiosità ma rivendica anche l’imprimatur sul corretto esercizio della laicità, il vaglio di eticità sulle leggi degli stati e sulle convenzioni internazionali.

In questa nuova dimensione l’Italia dovrebbe forse divenire, nelle intenzioni della Chiesa, la base politica, territoriale e giuridica, di una rivincita nei confronti della modernità: non è sufficiente però qualche prevaricazione legislativa per fare dell’Italia qualcosa di simile a quello che fu la Vandea nella Francia della Rivoluzione, la Calabria del Cardinale Ruffo nel regno murattiano o la Baviera cattolica nella Germania della Riforma luterana. Il rischio che corriamo è un altro: che sia lo Stato sia la Chiesa possano trovarsi presto a fare i conti con le macerie prodotte dall’imbarbarimento di un processo di secolarizzazione privato della laicità e quindi del rispetto dell’alterità e quelle prodotte da una mancata rinascita religiosa che come disse Moro all’indomani del referendum sul divorzio può fondarsi solo sulla testimonianza della fede e non sulla imposizione della legge.

 

Gianfranco Spadaccia

(da Notizie radicali, 19 febbraio 2009)


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