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Carlo Forin: A Zeneda c’è stata una festa. La Rosa.
Vittorio Veneto: Cattedrale
Vittorio Veneto: Cattedrale 
19 Aprile 2008
 

La festa a Zeneda, oggi Vittorio Veneto, avvenuta il 5 aprile è ancora da raccontare, perché i mass media ce l’hanno taciuta.

Siamo convenuti a discutere “Antares, alle origini perdute della cultura occidentale”, intestando l’incontro a Giovanni Semerano.

Qualcuno penserà: – Vi hanno oscurato gli Accademici, per non far una figura da chiodi!?

Nooo, poverini!

A parte l’intreccio giornali politici, credo che ci abbiano oscurato i direttori dei giornali, all’insegna -la cultura non tira. Beppina che si è spezzata una caviglia sì che fa audience!-.

Questo dico perché io sono stato intervistato ma non ho ancora letto quell’intervista.

Comunque sia è stata festa: a Semerano, ai ricercatori, ai cittadini presenti, e l’etimo di cityzen, cittadino, è proprio una festa: ZEN significa ‘illuminazione alla pazzia’. KI TI ZEN ‘illuminazione della vita in Terra’, una festa a ZE US e agli Dèi per aver dato la vita alla Terra.

Abbiamo fatto festa in Serravalle, la metà nord di Vittorio Veneto, per riconoscere che Zeneda, la metà sud, porta davvero il nome originario della residenza umana in zona.

 

 

 

Carlo Forin: La rosa

 

Vi riassumo le tante novità emerse al convegno “Antares, alle origini perdute della cultura occidentale” con una parola sola: rosa.

Ho sostenuto che in origine significa ‘utero sacro’ e rosa come simbolo rappresentativo di Iside, di Ishtar e delle massime dee,Venere compresa, ha avuto l’effetto di celare il significato linguistico del massimo del sacro RU SHA, sumero accado (sacro utero) rosa, anziché di rinforzarlo. E così ‘sa-c-ro’, ribaltamento di rosa, può sembrare solo un giochino, quando era SHA G RU, ‘utero Luce sacro’. Il sagrestano e la sagra sembrano bizzarre coincidenze agli ‘indoeuropei’ con la g di LU GH, soggetto Luce.

Scrivo per Archeomedia, cioè per amanti dell’archeologia, capaci di cogliere subito la portata di questo immenso processo graduale di desacralizzazione (inclusivo linguisticamente del Cristianesimo nel sema oggi non più riconosciuto) nella parola latina più elementare e più trattata, che ha ridotto il rapporto tra Cielo e Terra rosa solo al significante italiano del fiore rosa (ricordate il nome della ultima capitale sumera di UR, inverso di RU? GHILGAMESH ricevette un rovo di rosa come magia di immortalità [la rosa damascena trigintifolia? -Dove 30 è il numero di IN AN NA ed Ishtar-]); il Cristianesimo è stato capace di conservare l’espressione ‘Rosa mistica’ senza che nessuno rifletta, durante il rito del Rosario, che dei Cristiani dovevano aver colto il fatto che la parola latina rosa era associata a questo significato e che la Madonna è rosa mystica per aver generato il figlio di Dio, unione di Cielo e Terra.

Certo, fu Bernardo di Chiaravalle a coglierlo e a trasmetterlo a Dante che fece l’immagine del Paradiso come un’immensa rosa, aiutato però dal caposcuola Bernardo di Chartres, filosofo e linguista, raffinato grammatico, capace di perdonare una traduzione sbagliata ma conservativa dell’espressione originale e di punire severamente una traduzione errata che si addentrava nell’uso di sinonimi. Perché, sosteneva acutamente, ogni lingua è un unicum e la traduzione si può fare in sostanza solo ricorrendo a dei sinonimi: rosa italiana sinonima rosa latina, questa dotata però anche di altri significati, essendo un asterismo linguistico.

Il titolo Il nome della rosa fatto dal narratore medievalista Umberto Eco, ha colto l’enorme peso semantico del nome della rosa fino a proporsi come enigma –ed E NIG MAH sumero è ‘casa delle troppe cose’.

Questo spiega perché Lucio, nelle Metamorfosi di Apuleio, possa tornar uomo, da asino ch’era diventato per una magia sbagliata, solo mordendo un cespuglio di rose.

Il convegno si è svolto sabato 5 aprile nel nome di Giovanni Semerano, autore de Le origini della cultura europea, iniziatore della linguistica storica in quanto onomasiologo, cioè studioso dei nomi; ovvero: ha cercato come veniva chiamato lo stesso oggetto, la stessa terra, lo stesso dio, lo stesso popolo, insomma il noumeno – per dirla con Kant – nelle diverse lingue e tutte le espressioni storiche sono state rapportate all’accado, lingua internazionale nel secondo millennio a.C.

Un lavoro immenso!

Sono soddisfatto che sia stato riconosciuto il suo merito in un convegno partecipato dai figli, dal suo massimo ammiratore e da un centinaio di persone, non intimidite dal tema, ritenuto astruso dagli assenti.

Com’è potuto accadere che tutti gli etimologisti siano andati ‘fuori strada’?

Una prima spiegazione è data dal riconoscimento sociologico dell’ideologia, che possiamo chiamare ‘nebbia storica’, cioè quel fenomeno ‘da telefono senza fili’ dove l’ascolto della parola sussurrata dal giocatore precedente muta da un passaggio all’altro e la rende diversa all’ultimo ascoltatore.

La linguistica storica deve ricever aiuto dall’archeologia del linguaggio, cioè dallo studio dei nomi degli Dèi, dalla teonomasiologia.

Perché i nomi degli Dèi portano significati che trapassano la nebbia di millenni mentre la linguistica storica rimane prigioniera delle lingue!

Gli studi di Semerano hanno portato il Maestro quasi in Palestina, come Mosè.

L’archeologia del linguaggio vede i RA SH NA, gli Etruschi, devoti al massimo dio Saturno: AN SH AR, Cielo Luna Sole è un suo sinonimo.

Salve, grande genitrice di messi, terra Saturnia, Georgiche, II 173

Il sacerdote giudice, Maru Maro, Virgilio, il più grande genio letterario della sua madre-terra saluta l’Italia -terra Saturnia- e ci porge il nome della rosa come amor sacro:

 

-Turno, per queste mie lagrime, per il nome di Amata,

se t’importa –tu, ormai unica speranza e ristoro

alla mia sventurata vecchiaia; l’onore e la potenza di Latino

dipendono da te, su di te poggia la casa cadente-,

questo soltanto ti chiedo: desisti dal combattere con i Teucri.

Qualunque destino ti attende nel duello, attende

anche me, o Turno; lascerò con te l’odiosa luce,

e non vedrò, prigioniera, Enea diventarmi genero-.

Lavinia accolse il discorso della madre con lagrime

sparse sulle gote accese, e un intenso rossore

le aggiunse fuoco e corse sul viso bruciante.

Come se alcuno macchiasse avorio indiano con porpora

sanguigna, o come quando candidi gigli rosseggiano, mischiati

a molte rose [multa alba rosa]: tali colori la fanciulla rendeva dal volto.

                                                                          Eneide, XII, 56-69

 

La principessa etrusca Lavinia ha nel volto l’amore che turba il principe etrusco Turno, che nel nome evoca SHA-turno, utero di Turno. Un amor sacro che si contrappone a quello indeizzato, imposto dalla deaVenere, in Didone, che finisce abbandonata e suicida.

Il sacerdote etrusco declamò l’Eneide alla corte di Augusto ben sapendo che i Romani, la stirpe di Enea, discendevano da una dea infernale, Afro-Dite.

L’Eneide capace di scambiar l’ospitalità ricevuta con l’esproprio dell’ospitante dalla sua terra.

Io, Virgilio, sono Melibeo, colui che assaggia il ME per il suo principe etrusco

MEcenate, Maecenas, tu pranzi col ME.

Io, sacerdote, UA TE, che tiene il rapporto tra il Cielo (U) e la Terra (A) trasmetto a te principe il ME -ME coenas-.Io, aristocratico etrusco- ti predico l’immortalità, Augusto, perché hai restaurato la monarchia: solo il re delle Api può far ritornare all’alveare, al Regno, il miele, mel, il ME di EL (LIL), dio sovrano accado.

L’archeologia linguistica esalta l’archeologia e restituisce alla lingua il suo potere, il ME perduto dalla ME MUR IA, luogo di vita-morte del ME.

Il linguaggio è ME TA linguaggio, luogo –non artificiale– ma proprio del ME, il nome che dà nome a tutti i nomi e crea.

 

Carlo Forin


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