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Juhie Bhatia. La prigioniera di Teheran
29 Luglio 2007
 

Marina Nemat

La prigioniera di Teheran

Cairo Publishing, 2007, pagg. 304, € 16,00

 

La sera del 15 gennaio 1982, Marina Nemat (foto) veniva arrestata a Teheran, la capitale dell’Iran. Fu mandata alla prigione di Evin, nota per il suo “braccio della morte” destinato ai prigionieri politici condannati alla pena capitale. Marina aveva 16 anni.

Erano i primi tempi della rivoluzione islamica dell’Ayatollah Khomeini. Marina Nemat non si considerava un’attivista, ma aveva protestato con il suo insegnante di matematica per aver tenuto lezione sull’Islam, anziché sulla sua materia. L’insegnante le rispose: «Se non ti piace quel che sto insegnando, puoi andartene». E così Marina fece, seguita da altri studenti.

Il risultato fu che si trovò alla prigione di Evin. Sfuggì all’esecuzione all’ultimo minuto, e fu rilasciata dopo due anni di detenzione. Ma sino ad ora aveva sempre tenuto segreta la storia di come si salvò e di ciò che accadde ad Evin. Persino i suoi genitori e suo marito erano all’oscuro di tutto.

Più di vent’anni dopo, Marina Nemat ha deciso di condividere ciò che accadde in prigione nel suo memoriale La prigioniera di Teheran. I diritti del libro sono già stati venduti in 21 paesi, poiché il testo offre un raro spaccato della vita di un detenuto politico in Iran.

«Il mio libro non è politico», dice tuttavia Marina, «ma è andata a finire che viene ritratto come tale. Narra di ciò che è accaduto a me, una giovane ragazza cristiana piuttosto ingenua, che si è trovata in una situazione difficile e vi è sopravvissuta, ed ora può raccontare la sua storia».

Quando Marina giunse ad Evin nel 1982, fu interrogata da due guardie. Una di esse, Ali, si innamorò di lei. Marina stava marciando con il plotone d’esecuzione quando Ali la riportò in cella. La sua sentenza venne ridotta all’ergastolo: in cambio, la guardia chiese a Marina di sposarlo, il che richiedeva la sua conversione all’Islam. La ragazza passò i due anni di prigione come moglie del suo inquisitore.

«Una cosa molto importante del libro», dice Lee Gowan, che è stato insegnante di scrittura per Marina Nemat, «è il modo in cui lei racconta la vicenda di come Ali la costrinse a sposarlo, e praticamente la stuprò, pur senza fare di lui il “cattivo tipo” della storia. Gli scrittori, se vogliono essere obiettivi, devono entrare nel cuore umano, e lei sa farlo».

Marina dice che Ali, in precedenza, era una brava persona che era stata imprigionata e torturata, e aveva scelto di scatenare l’odio e la rabbia nati da quell’esperienza contro coloro che non condividevano la sua religione o le sue credenze. «Tutti siamo in pericolo di diventare fondamentalisti, che si sia cristiani o musulmani o quant’altro, e lo rischiamo nel momento in cui permettiamo a noi stessi di essere accecati da emozioni basilari», dice Marina.

La relazione fra i due fu interrotta violentemente quando Ali venne ucciso a colpi d’arma da fuoco da altri rivoluzionari suoi rivali. Quando Marina fu rilasciata da Evin nel 1984 non fece parola del matrimonio, o di ciò che era accaduto a lei ed alle altre prigioniere mentre si trovavano là. Alcune di queste donne, a differenza di lei, non sfuggirono all’esecuzione, ed ognuna aveva la propria storia.

«C’era un muro di silenzio, quando sono uscita. Eravamo dominati in assoluto dalla paura. Il passato era passato, non volevamo neppure menzionarlo, dovevamo solo muoverci in avanti».

Marina sposò il ragazzo con cui aveva già un “filarino” da adolescente, ed assieme a lui si trasferì a Toronto, in Canada, quando aveva 26 anni. Per un po’ lavorò come cameriera, poi si dedicò ad allevare i suoi due figli. Voleva dimenticare l’Iran, e mise ogni possibile energia nel diventare canadese. Ma la morte di sua madre, nel 2000, diede inizio a qualcosa, in lei. Si chiedeva perché non le avesse mai parlato di Evin. Da questa domanda, i ricordi di Marina cominciarono a fluire.

Nel 2002 andò in una rivendita di oggetti per ufficio, comperò alcuni taccuini e cominciò a scrivere. Da principio scriveva per se stessa, ma mano a mano che il tempo passava comprese che voleva raggiungere altre persone. Infine, rivelò i dettagli della sua permanenza ad Evin a colui che era suo marito da diciassette anni, e poi si iscrisse ad un corso di scrittura.

«Era la studentessa più determinata in cui mi sia mai imbattuto», racconta Gowan, responsabile del programma di scrittura creativa alla Scuola per la Formazione Permanente dell’Università di Toronto, «Voleva raccontare la sua storia. Al di là di ciò che questo significava per lei, voleva raccontare la storia delle altre donne in quella prigione, voleva dar loro voce». Marina scrisse il suo libro in inglese, che per lei non è né prima né seconda lingua, e ci mise quattro anni. Il memoriale è stato pubblicato in Canada nello scorso aprile, e in maggio negli Usa. Da allora Marina Nemat ha tenuto conferenze in molte scuole superiori ed università in tutto il Canada, ed ha venduto alla tv canadese i diritti per trarre un film dal suo testo.

Marina aveva appena terminato il terzo capitolo del suo memoriale, quando la fotogiornalista iraniana-canadese Zahra Kazemi venne arrestata per aver scattato fotografie di fronte alla prigione di Evin. Era il luglio 2003. Circa tre settimane più tardi, morì in galera. Il medico iraniano che aveva esaminato il suo cadavere rivelò nel 2005 che esso presentava evidenti segni di tortura: inclusi stupro, dita spezzate, unghie mancanti, segni di frustate sulle gambe e una frattura cranica.

«Quando Zahra morì mi sentivo colpevole, perché ero una testimone che non aveva mai parlato», dice Marina Nemat. «Ma la sua tristissima morte ha gettato un po’ di luce sulla condizione dei prigionieri politici in Iran. Tutto quello che posso fare è narrare la mia storia, sperando che anche questa getti qualche frammento di luce che si unisca al suo. Forse allora il mondo sarà più propenso ad ascoltare altre testimonianze. Forse una raccolta di queste vicende può contribuire a cambiare le cose, e il modo di pensare della gente».

Michelle Shephard, giornalista del Toronto Star ed amica di Marina, pensa sia molto importante che il libro sia uscito ora, anche se riguarda eventi del passato: «L’Iran è ancora un paese chiuso alla narrazione giornalistica, ed il suo libro è una piccola finestra, anche se parla di vent’anni fa. È dura in Iran, come in altre società chiuse, perché è difficile per le persone trovare abbastanza coraggio da narrare le loro storie: sanno che rischi si assumono, facendolo», dice Michelle. «La sua è una voce importante. Ha attraversato tutto questo, ed è madre di due figli, e continua a vivere. Ciò che dice porta con sé un grande significato».

Ora che il memoriale è finito, Marina si sente pronta a lasciarlo dietro di sé. Sta lavorando ad un romanzo. Vive ancora a Toronto, e non è mai tornata in Iran: «L’Iran è cambiato, ma non in meglio. La gente ha imparato a maneggiare la dittatura, a stare sotto il radar», dice Marina. «La prigione di Evin è la stessa, ma il numero di prigionieri è inferiore rispetto ai miei tempi, le persone hanno imparato a non “mettersi nei guai”. Ma quando ci finiscono, vengono trattati esattamente come sono stata trattata io».

 

Juhie Bhatia*

 

Maggiori informazioni:

Zahra Kazemi: www.zibakazemi.org

 

* Scrittrice, corrispondente per We News. Traduzione di M.G. Di Rienzo, 28/07/2007


 
 
 
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