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Marisa Cecchetti. “Benedetti da Parker” di Alessandro Agostinelli
07 Giugno 2017
 

Alessandro Agostinelli

Benedetti da Parker

Cairo Editore, 2017, pp. 176, €14,00

 

Quando ha deciso di vivere a Torre del Lago, nel 1953, per sfuggire alla polizia americana e non per una scelta del cuore, Dean Benedetti aveva grosse difficoltà a tenere l’ancia del sax in bocca, perché ormai la droga lo aveva logorato e la miastenia aveva attaccato l’apparato muscolare. Camminava strisciando i piedi, lentamente si vedeva sottrarre dalla malattia le azioni più comuni della quotidianità e della vita. Eppure continuava a cercare la droga. È morto a 34 anni, nel ’57.

Alla stessa età era morto due anni prima Bird, ossia Charlie Parker, l’unico che secondo Benedetti sapeva suonare il sax alto. E dopo era inutile continuare a vivere: “Quando morì Bird morì qualcosa di me. Non avevo più attaccamento a niente”.

Bird è stato per lui la stella polare, quando l’ha ascoltato per la prima volta ed è entrato nella sua vita, ha riconosciuto i propri limiti ed ha ostinatamente dedicato il suo tempo a registrarlo. Per imparare la sua tecnica. Con Parker ha diviso l’esperienza della droga, è stato orgoglioso di cercarla per lui: “Così Charlie non aveva bisogno di pensare a muoversi di qua e di là per cercare la droga. Io la cercavo, io la trovavo, io lo rifornivo più spesso degli altri”. Perché per raggiungere quei livelli si faceva uso di l’eroina. “La musica migliore la tira fuori soltanto l’eroina”. Era il carburante che serviva per suonare al meglio.

Parker “era improvvisazione sul momento, scriveva lì per lì, senza mettersi a provare”. Dean lo considerava alla stregua di un dio. Bird era diventato la sua ossessione, in una tensione continua verso la perfezione del suono.

Lui aveva la sua Dean Benedetti’s Barons of Rhythm, aveva suonato col suo gruppo dal Nevada a Los Angeles -l’amico Jimmy Knepper presenza fissa quasi fino all’ultimo-, secondo i momenti aveva fatto vita da barbone, era stato cacciato perché visibilmente fatto di eroina e alcool, era vissuto alla giornata cercando gli espedienti più fantasiosi per racimolare denaro.

Un mondo malato, quello del jazz, come si evince dal romanzo di Alessandro Agostinelli, negli States degli anni ’50, un sommerso di sogni, illusioni, sofferenze, eccessi, che portavano alla autodistruzione. Un’epoca che Agostinelli, giornalista e scrittore, ricostruisce con una competenza straordinaria, che rivela passione e lunga ricerca.

Torre del Lago degli anni ’50, per chi ha vissuto a Los Angeles e New York e ha conosciuto i più grandi jazzisti, è un posto assurdo dalle strade misere e strette, piccolo davanti alla vastità del ricordo. Un luogo che vive solo della fama di Puccini, ma dove la vita è sempre uguale, noiosa, dove il centro d’incontro è il bar con le interminabili partite a carte, con le chiacchiere e le curiosità.

Dean Benedetti, ovvero Dino Alipio per la gente di lì, si sente straniero, anche se quella è la terra dei suoi avi, anche se vi trova un sacco di parenti. I suoi genitori erano partiti da Torre del Lago, il padre aveva lavorato alle ferrovie in Nevada, poi da anziano era tornato in Italia, e così la sorella di Dean.

Ma il suo mondo l’ha seguito. Non a tutti interessa, magari nessuno sa chi è quel Charlie Parker a cui Dean ha dedicato la sua vita; ma il giovane Igilio, che per vivere scuote le pine dagli alberi, lui è appassionato di musica, e per Igilio Dean diventa un mito. A lui Benedetti insegna la musica jazz, ma soprattutto gli insegna ad ascoltare, a riconoscere i suoni, a separarli, a capirne il valore. Il ragazzo diventa il braccio che compie le azioni che la miastenia gli sottrae.

Ma chi è stato Dean Benedetti? “Un jazzista, o un musicologo? Un discografico o un archivista di suoni?” Senza dubbio più grande di quanto lui steso abbia pensato di sé.

Se dapprima Puccini non lo ha incuriosito più di tanto -troppo lontana l’opera dal modo del jazz- Benedetti, da orecchio fine qual è, si accorge che quella musica è stata molto moderna e gli si avvicina con una attenzione nuova.

Anche a quel luogo sperduto e tanto denigrato alla fine un po’ si affeziona, scopre la genuinità della sua gente, si incuriosisce per i lavori più strani - lo scuotitore di pine, il renaiolo, il ciabattino, l’arsellaio -, si lascia coinvolgere dalle loro abitudini.

Bella l’atmosfera di paese che Agostinelli ci regala, con i ritmi lenti, calmi come le acque del suo lago. Surreale, agli occhi di Dean, soporifera. Tutto l’opposto della notti di Los Angeles, “alcoliche e fumose, passate tra note musicali, chiacchiere, jazz e droga”.

La vita di Benedetti è raccontata in prima persona, come un lungo diario, senza mai una caduta nella retorica o nel vittimismo. Perché quella è la vita che il protagonista ha voluto. Anche la fine è in prima persona: “Ormai era domenica. Era il 20 gennaio 1957. I miei ragazzi erano qui. Mia sorella era arrivata. Non ebbi tempo di dire nulla a nessuno. Non potevo. Quindi non ci dicemmo niente. E morii lì”.

 

Marisa Cecchetti

 

 



 
 
 
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