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Chiara Moscatelli. Sud Sudan: l’indipendenza senza pace. Riflessioni geo-sociali
23 Maggio 2016
 

Il Sud Sudan è il più giovane Paese africano. È estremamente povero e la maggior parte delle persone è impiegata in attività non remunerative, come l’allevamento e l’agricoltura, unica fonte di sostentamento. È inoltre lo Stato che più dipende al mondo dal petrolio, che costituisce il 60% del suo PIL, stando a quanto sostiene la World Bank.

Nel 2015 l’Indice Sviluppo Umano (ISU), studiato dalla United Nations of Development (UNDP), lo colloca alla 169ª posizione su 188 Paesi e territori, con un 0.467, decisamente al di sotto della media dell’Africa sub-sahariana (0.518) e così inserendosi a pieno all’interno della categoria dei Paesi a basso sviluppo umano.

A soli due anni dalla sua creazione, nel dicembre 2013, in Sud Sudan scoppiò un conflitto interno alle forze politiche e militari sud sudanesi: tra il presidente Salva Kiir e l’ex Vice-presidente Riek Machar, che fondò il Southern People’s Liberation Movement in Opposition (SPLM-IO).

L’ultimo accordo di pace risale al 29 agosto, dopo ben 20 mesi di negoziato attraverso la Intergovernmental Authority on Development (IGAD). In quell’occasione il presidente sud sudanese Salva Kiir firmò un armistizio già siglato 10 giorni prima dalla controparte Riek Machar, dove si stabiliva la fine delle ostilità insieme ad una vasta gamma altre di questioni, tra cui la condivisione del potere, le misure di sicurezza, assistenza umanitaria, accordi economici e dei nuovi parametri per una costituzione permanente, poiché il Sud Sudan non ne è ancora dotata.

Il 4 novembre SPLM-IO e il governo firmarono un altro accordo stabilendo una cessazione permanente del fuoco e la smilitarizzazione della capitale del Paese, Juba, insieme ad altre città. Nonostante ciò la violenza è continuata e continua tutt’ora, anche se con una frequenza minore. Ad oggi il risultato di questa guerra sono 1 milione e 690 mila persone lontane dalle proprie abitazioni (di cui 36 mila sono minori non accompagnati), più di 700 mila rifugiati nei Paesi limitrofi (Sudan, Etiopia, Kenya, Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana), 2.8 milioni di persone che lottano giornalmente contro la mancanza di cibo.

Il conflitto rimane concentrato nella zona nord-occidentale del Sud Sudan, negli Stati di Jonglei, Unità, Nilo Superiore ed Equatoria Occidentale, dove si sono alternati momenti di tranquillità a violenze estreme. Amnesty International sostiene che siano coinvolte più di 20 forze armate differenti, tra cui l’esercito regolare sud sudanese, quello ugandese che appoggia il governo ed altre fazioni di ribelli.

Come avviene in ogni conflitto, la violazione dei diritti umani fondamentali è stata una regola fin dall’inizio ed ad oggi è normalità: tutte le parti in guerra hanno attaccato periodicamente ospedali, luoghi dedicati al culto, case; hanno ucciso e uccidono molto spesso i civili per ragioni puramente etniche o per una supposta fede politica. Hanno inoltre attaccato, molestato e arrestato sia operatori umanitari che membri dello staff della missione United Nations Mission in South Sudan (UNMISS).

Tra le violenze più comuni vi sono omicidi, stupri, anche di bambine fino a otto anni, castrazione di uomini e ragazzi e rapimento di minori per farne dei soldati, di cui UNICEF ne ha stimati 16 mila.

In questi anni sono stati bruciati campi, distrutti negozi e pozzi e rubati bestiami, comportando un aumento costante della malnutrizione. Il 2015 ha visto crescere questo problema rispetto al 2014 e lo stesso sta accadendo nel 2016: da gennaio UNICEF e altri Partners hanno curato quasi 53 mila bambini per malnutrizione severa o acuta, il 40% in più rispetto allo stesso periodo del 2015.

Il World Food Programme (WFP) sostiene che il Paese abbia raggiunto il peggior livello di insicurezza alimentare dall’indipendenza. Le aree dove si trova una concentrazione molto alta di malnutrizione sono quelle dove la guerra civile è più accesa, Unità, Jonglei e Nilo Superiore; mentre in quelle dove c’è pace vi è maggiore sicurezza alimentare. In alcune zone di Joglei l’insicurezza alimentare supera il 30% della popolazione e si stimano 2.8 milioni di persone che hanno bisogno di cibo in tutto il Paese (84% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente).

La mancanza di acqua pulita, l’accalcamento in piccole aree protette dagli aiuti internazionali e la stagione delle piogge hanno inoltre riacceso il rischio del colera e della malaria, soprattutto negli Stati più colpiti ovvero Equatoria Centrale, Equatoria Occidentale, Jonglei, Unità e Nilo Superiore.

Guerra, povertà ed insicurezza generalizzata hanno ostacolato anche la possibilità, per i giovani, di andare a scuola. Già prima dello scoppio del conflitto il Sud Sudan possedeva il peggior indice di scolarizzazione al mondo, tanto che più dell’80% della popolazione non sapeva leggere e scrivere. Da allora tante organizzazioni senza scopo di lucro hanno cercato di intervenire nel Paese a sostegno di un futuro più roseo per le nuove e vecchie generazioni, ma ad oggi la situazione critica in cui versa il neo Stato sta ostacolando ancora l’accesso a questo diritto basilare. Da quanto riporta UNICEF più di 800 scuole sono state demolite mentre secondo le Nazioni Unite il 51% dei minori tra i 6 ed i 15 anni non frequenta la scuola, cioè 1.8 milioni; solo un bambino su 10, quindi, termina la scuola primaria. Questo dato allarma ancora di più se lo si paragona alla statistica prima dell’inizio delle ostilità: prima che tutto questo accadesse i giovani della stessa età che non frequentavano la scuola erano 1.4 milioni, 400 mila in meno. Lo stesso governo non si è mostrato, fino ad ora, particolarmente interessato ad investire nel settore dell’istruzione (solo il 4% del PIL), diminuendo invece i fondi ad essa dedicata a favore della difesa militare. Scolarizzazione e guerra, tuttavia, si mostrano in continuità e là dove c’è scarsa scolarizzazione c’è maggior rischio che nascano conflitti.

A settembre 2015, tuttavia, il Ministro dell’istruzione, scienza e tecnologia del Sud Sudan insieme all’agenzia delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), aveva lanciato una prima indagine sulla condizione del settore dell’istruzione, la Education Sector Analysis (ESA), al fine di dare al governo un quadro realistico e completo del contesto scolastico sud sudanese, alla luce anche del conflitto in corso, evidenziando l’iscrizione scolastica, l’efficienza interna, i finanziamenti ed i costi, l’equità e la qualità. All’analisi ESA stanno contribuendo non solo il governo sud sudanese, ma anche agenzie come UNICEF, UNESCO, United Nations High Commission for Refugees (UNHCR) e International Institute for Education Planning UNESCO (IIEP), nella speranza che il resoconto sia pronto per giugno 2016.

La guerra ha inoltre aumentato l’incidenza della povertà: secondo la WorldBank (WB) nel 2011, anno di indipendenza del Sud Sudan, questa era pari al 44,7% mentre ad oggi è al 58,5%, amplificata in parte dalla mancata produzione di petrolio.

A provare a difendere e proteggere i civili, nonché a monitorare la violazione dei diritti umani ci pensa UNMISS, la missione stabilita dall’ONU nel 2011 e rinnovata sino ad ora a causa delle violenze interne al Sud Sudan. Interessante è notare che dai primi mesi del 2015 il contingente UNMISS è arricchito anche dalla presenza di centinaia di truppe cinesi: è la prima volta che la Cina manda battaglioni per missioni di pace estere.

La motivazione cinese si legge sotto le righe: cerca di difendere il suo interesse per la produzione del petrolio sud sudanese, su cui il Paese asiatico ha da sempre forti interessi, ancora prima dell’indipendenza dello Stato africano. La sua produzione ed il prezzo sono infatti in discesa, tanto che quest’ultimo è diminuito del 70% nell’ultimo anno e mezzo, poiché la guerra civile ha bloccato a fasi alterne la produzione di petrolio nei territori colpiti, come ad Unità e nel Nilo Superiore.

Di fronte a queste nuove statistiche non è possibile, per il momento, affermare che il Paese, che ha combattuto così a lungo per la sua indipendenza dal Sudan, sta procedendo nella direzione corretta, andando invece in quella contraria.

Nel 2011 il Sud Sudan usciva distrutto da quella che era stata una guerra ventennale –se si tiene conto solo della seconda guerra civile– con il Sudan e che ancora oggi si fa sentire nelle aree di confine, quelle dove si trova il petrolio. All’epoca i primi studi descrivevano uno Stato povero, distrutto e che non aveva nulla. Rispetto al 2011, però, non è cambiato molto e, come si è visto, per alcuni versi è anche peggiorato: l’educazione procede ancora peggio di prima e l’unico aiuto viene dalle organizzazioni non governative e la sua mancanza provoca e sostiene la violenza; l’agricoltura e l’allevamento, che sono le due attività più praticate da uomini e donne ed unica fonte di sostentamento, sono difficilmente praticabili a causa di bombardamenti e razzie e come conseguenza arrivano povertà, malattie e malnutrizione; la guerra civile per motivi politici rimane, dopo due anni, orientata ad una guerra etnica, dove Dinka e Nuer si uccidono vicendevolmente, colpendo principalmente le fasce più fragili della popolazione, donne, bambini e anziani.

 

 

Alcune note sitografiche:

Building resilience in South Sudan’s education system, iiep.unesco.org, 2 febbraio 2016

South Sudan Emergency Page, wfp.org

Karen Allen, “What China hopes to achieve with first peacekeeping mission”, BBC News, 2 dicembre 2015

The World Bank, 9 aprile 2016

50 Years United Nations Development Programme in South Sudan”, undp.org

Annual Report South Sudan 2015/2016”, amnesty.org

UNMISS (United Nations Mission in the Republic of South Sudan), un.org

Chiara Moscatelli, “Sud Sudan nuovo Stato dell’Africa sub-sahariana: realtà e prospettive”, Tellusfolio.it, 5 maggio 2015


Chiara Moscatelli


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