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Marisa Cecchetti. “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa
06 Settembre 2015
 

Susan Abulhawa

Ogni mattina a Jenin

Traduzione di Silvia Rota Sperti

Feltrinelli, Bibl. economica, 2012, pp. 396, € 10,00

 

Prima della guerra Arabo Israeliana del 1948 Ein Hod – luogo dove ha inizio la storia narrata dalla Abulhawa – era un villaggio palestinese in mezzo agli oliveti, ai piedi del monte Carmelo. Durante la guerra la sua gente fu espulsa e molti trovarono rifugio nel campo profughi di Jenin.

Nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Susan Abulhawa che ci porta nel campo di Jenin, ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme prima di raggiungere gli USA da adolescente, dove svolge un ruolo importante nel campo della medicina ma continua a dare voce alla gente dei territori occupati.

Ein Hod nel 1941 era un’oasi di pace, ogni anno il raccolto delle olive era una festa attesa: «…i colpi dei bastoni dei contadini contro i rami, il fruscio delle foglie, il tonfo dei frutti che cadevano sulle vecchie tele incerte e sulle coperte stese sotto gli alberi. Mentre gli uomini faticavano, le donne cantavano le ballate dei tempi andati, i bambini giocavano e venivano ripresi dalle madri quando intralciavano il lavoro». Con la proclamazione dello Stato di Israele, la devastazione, le morti. Nella fuga il piccolo Isma’il viene strappato dalle braccia di sua madre, la bella beduina Dalia, per diventare il figlio rubato di una importante coppia ebrea sterile. Il piccolo ha una cicatrice sul volto, conseguenza di una caduta dalla culla, che il fratello Yussef non è riuscito ad evitare.

La vita dei figli di Dalia, Yussef e la sorella Amal, si snoda attraverso tutta la seconda metà del ‘900, insieme al dramma del popolo palestinese senza patria, le rivendicazioni ebraiche sempre più invasive, la nascita di movimenti di Liberazione della Palestina, gli attentati terroristici di risposta alle armi israeliane.

A Jenin si vive nel disagio e nelle privazioni ma si cerca di reinventare qualcosa che assomigli alla vita normale, sempre con la speranza di tornare a casa propria, agli orti e agli oliveti. Anche Jenin non scampa alla furia della Guerra dei Sei Giorni, e quando Yussef è preso prigioniero e torturato, riconosce una ferita sul volto di un ebreo che gli assomiglia. Con le stragi dei campi profughi di Sabra e Shatila perderà la moglie, la bambina e la creatura che lei portava in grembo, squarciato con un coltello. Yussef desidera solo vendetta.

Se i personaggi e gli intrecci hanno l’apporto della capacità creativa della scrittrice, che senza dubbio rivede se stessa nella figura di Hamal, cresciuta in un orfanotrofio per poi raggiungere gli Usa grazie ad una borsa di studio, i riferimenti storici, i dati, le stime, sono reali. C’è profondo dolore ma non retorica, c’è oggettività talora brutale ma non schieramento. La presenza di Isma’il, divenuto David in mezzo al popolo ebraico, rimasta sospesa su tutta la storia narrata, sarà l’elemento unificatore, quello che fa intravedere possibilità di aperture, che induce anche al perdono.

Ma se gli USA sono un rifugio, rimane costante il richiamo della Palestina, terra che le generazioni più giovani vogliono conoscere, magari tornando anche a Ein Hod, a vedere lo splendido edificio di pietra con bellissimo giardino e alberi da frutto che era stato di famiglia. Ma ormai tutto è cambiato, nella loro casa c’è «una bella ebrea sui trent’anni. Resasi conto che gli estranei che aveva davanti erano mossi da un afflato di nostalgia palestinese, si rifiutò di farli entrare. – So di cosa si tratta – dice – ma dovete capire che adesso questa casa è nostra».

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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