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Luigi Manconi. Cosa arma le mani 
Mandela e quel faticoso percorso verso la rinuncia alla lotta armata e verso la nonviolenza
13 Dicembre 2013
   

Anche in riferimento all'inizio di discussione a proposito del rapporto di Mandela con la rivoluzione cubana, forse i lettori di Tf troveranno interessanti queste considerazioni di Luigi Manconi.

 

 

Nel profluvio, inevitabile e talvolta anche commovente di articoli su Nelson Mandela, quello che più mi ha colpito è stato pubblicato sabato scorso da Repubblica a firma di Bernardo Valli. È come se, sorprendentemente, nell'epoca della comunicazione onnipervasiva e parossistica, degli archivi senza fondo e degli immani giacimenti di notizie, solo la testimonianza oculare e la vitalità della memoria di un ultraottantenne fossero in grado di offrirci il senso più profondo e, come in questo caso, più antico di una vicenda umana.

L'articolo di Valli introduce, nella rappresentazione rituale di Mandela, quell'elemento storico e politico che contraddice una celebrazione devozionale e dà corpo, sangue e concretezza emotiva alla sua figura. Nel marzo del 1960, racconta Valli (risvegliando in me la traccia di un esilissimo ricordo), la polizia del governo guidato da Hendrick Verwoerd (teorico e realizzatore del regime di apartheid) attacca una manifestazione contro l'inasprimento della legge sui lasciapassare, sparando ad altezza d'uomo e causando 69 morti e 180 feriti. Per Mandela, quel massacro costituisce un punto di svolta e una rottura traumatica, che lo induce a ritenere necessario e indifferibile il ricorso alla lotta armata: «visitò clandestinamente almeno dieci paesi africani, dall'Etiopia all'Algeria, per imparare l'arte del guerriero e quindi apprendere l'uso degli esplosivi e il funzionamento di mitra e pistole». Successivamente Mandela argomenterà così quella scelta: «A determinare il tipo di azione è sempre l'oppressore; l'oppresso non può che scegliere la forza, se l'oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari». Dunque, la scelta e, poi, la teorizzazione della nonviolenza – come, allo stesso tempo, metodo e contenuto, strumento e strategia – arriveranno al termine di un percorso faticoso e contraddittorio. Un percorso dove la nonviolenza si pone e si definisce in maniera inequivocabilmente differente dall'ideologia del pacifismo. E sarà quella stessa ispirazione nonviolenta a nutrire la straordinaria e pressoché unica esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione, una volta sconfitto il regime di apartheid (si vedano in proposito i saggi di Marcello Flores). Al di là del tratto biografico, pur così significativo, sono il senso politico e il senso etico rivelati dall'opzione per la nonviolenza, a costituire il lascito più prezioso della testimonianza di Mandela. Come già hanno mostrato gli importantissimi lavori di Pier Cesare Bori e Gianni Sofri su Mahatma Gandhi, la nonviolenza non è un assoluto né tanto meno un'astrazione morale o una metafisica. È, piuttosto, un itinerario di formazione e maturazione, che rinuncia all'utilizzo degli strumenti della sopraffazione fisica perché fatalmente destinati a fallire rispetto allo scopo, a rivelarsi impotenti, a produrre più costi che benefici (dove per costi si devono intendere sia i danni morali che quelli materiali). Ma tutto ciò parte da un presupposto che non può essere né eluso né sottovalutato: la tentazione della violenza è presente in profondità – non dico insita (questione controversa e per me oscura) – nella personalità e nella stessa antropologia dell'essere umano. Tanto più quando «l'ira per l'ingiustizia fa roca la voce» e arma le mani: talvolta quelle dei più miti. Di conseguenza, rinunciare alla violenza è esercizio arduo: e proprio perché «a determinare il tipo di azione è sempre l'oppressore; l'oppresso non può che scegliere la forza, se l'oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari». È qui che contenuto politico e contenuto etico della nonviolenza si incontrano e si combinano: perché rinunciare alla violenza significa adottare un repertorio d'azione diverso, che esprime l'autonomia di chi vi ricorre e la sua capacità di operare in uno spazio non imposto dal nemico. D'altra parte, cambiare campo e sistema d'azione offre maggiore opportunità di efficacia e di successo; e contribuisce a interrompere una spirale di incrudelimento, destinata fatalmente a precipitare in una sorta di nichilismo dei mezzi. Fino a trovare lì il fondamento “tecnico” della nequizia morale della barbarie.

 

Luigi Manconi

(da il Foglio, 10/12/2013)


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