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Yoani Sánchez. Le urna a novanta miglia
09 Novembre 2012
 

Venerdì scorso, la stampa cubana si è scagliata, con una violenta nota del Ministro delle Relazioni Estere, contro l’Officina di Interessi degli Stati Uniti all’Avana (SINA). La tradizionale aggressione verbale rivolta al vicino del Nord questa volta aveva come tema polemico il funzionamento nella sua sede consolare di una sala Internet aperta al pubblico. Il luogo esiste da alcuni anni ed è frequentato da diverse tipologie di persone: studenti che vogliono fare ricerche, giornalisti indipendenti che tentano di pubblicare i loro articoli, familiari di esiliati che desiderano contattarli tramite posta elettronica. In un paese dove l’accesso al ciberspazio è un lusso riservato a pochi, le lunghe file per accedere al centro Internet della SINA infastidiscono il governo.

Tuttavia, dopo aver letto l’altisonante dichiarazione, un interrogativo si fa pressante: perché proprio adesso? Se quelle sale con servizio web funzionano da quasi un decennio perché compaiono in questo momento nella prima pagina del Granma? La risposta sta in quel che è accaduto questo martedì nelle urne nordamericane. Era una mossa preventiva in funzione delle elezioni statunitensi. Il divario tra Barack Obama e Mitt Romney era stretto e il governo di Raúl Castro lo sapeva bene. Per questo, da alcuni mesi, aveva cominciato a indirizzare proiettili verbali contro i due candidati. La propaganda ufficiale definiva il rieletto presidente statunitense come l’uomo che “ha inasprito il blocco imperialista”, mentre il suo avversario repubblicano era “la politica anticubana”. Di male in peggio, ribadiva con insistenza.

Ma all’interno dell’Isola erano palpabili curiosità e interesse per le elezioni del vicino del Nord. Troppe cose erano in gioco all’altro lato dello Stretto della Florida. La politica di Piazza della Rivoluzione si caratterizza soltanto per contraddire Washington, cosa che stabilisce una peculiare forma di dipendenza. Raúl Castro lancia una timida riforma migratoria e spiega che non è stato possibile fare di più perché siamo “una piazza assediata dall’Impero”. Non si può neanche concedere il permesso di legalizzare altri partiti perché “lo Zio Sam minaccia”, mentre l’accesso a Internet deve essere graduale e selettivo, perché “la guerra mediatica del Pentagono” non colpisca duro. Se analizziamo questa perenne rivalità, dovremo concludere che mai come adesso i destini dei cubani sono dipesi così tanto dagli Stati Uniti. Mai il nostro quotidiano è stato così soggetto a ciò che decide l’inquilino dell’ufficio ovale.

L’acerrimo discorso antimperialista del governo cubano ha finito per mordersi la coda. Per settimane, nei mezzi di comunicazione ufficiali si è parlato più dei comizi statunitensi che delle nostre elezioni per rinnovare il Potere Popolare. Chiamati a mettere in evidenza ogni elemento negativo delle presidenziali nordamericane, i commentatori televisivi hanno dimenticato la massima secondo cui “niente è più attraente delle cose proibite”. E così ogni aggettivo aggressivo, ogni burla, ogni diatriba contro Obama e Romney, hanno provocato un’insolita aspettativa intorno a questo primo martedì di novembre.

Tutto questo segnato, inoltre, dalla progressiva perdita d’importanza di Cuba nella politica degli Stati Uniti. La marcata irrilevanza di questa Isola è stata messa in evidenza da una campagna presidenziale che le ha dedicato scarsa attenzione. Sono ben lontani i giorni di quell’ottobre del 1962 quando i missili nucleari obbligarono il mondo a prestare attenzione alla maggiore delle Antille. Adesso lo sguardo di Obama è diretto verso altri paesi e diverse problematiche, durante il secondo mandato questa tendenza sarà ancora più evidente. In primo luogo dovrà occuparsi dei problemi di economia interna degli Stati Uniti e cercherà di mettere in sesto la situazione finanziaria. La crisi in Europa occuperà buona parte della sua attenzione e così la situazione di Iraq, Afghanistan, Iran e Siria.

Raúl Castro ha bisogno di tornare a guadagnare protagonismo nell’agenda del suo eterno nemico, perché quella è la base del suo potere. La sua politica dentro e fuori Cuba si basa su quella rivalità, senza non può esistere. Per questo motivo notiamo i primi i sintomi di una scalata diplomatica che obbligherà a una presa di posizione da parte del neoeletto presidente nordamericano. Si affila il linguaggio politico, si intensificano gli insulti, si cerca lo scontro frontale per fare in modo che il presidente reagisca. È il momento di cercare di diventare una delle priorità del vicino del Nord, costi quel che costi… anche se quella strategia non è più vincente.

 

Yoani Sánchez

(dal Blog Cuba Libre, El País, 8 novembre 2012)

Traduzione di Gordiano Lupi


 
 
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