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Yoani Sánchez si confida a Lorena Chauca 
“Non mi lasciano uscire perché sanno che tornerei...”
26 Maggio 2012
 

La blogger cubana opositora al regime castrista conversa con Publimetro sulla visita della figlia di Raúl Castro negli Stati Uniti. E rivela la sua opinione su Camila Vallejo e Barack Obama.

 

 

Yoani Sánchez ha un figlio adolescente, Teo, e un altro che ad aprile ha compiuto cinque anni. È un figlio digitale, il suo blog, chiamato Generación Y. Publimetro Perú ha conversato telefonicamente con la blogger più letta nel mondo, e quella che ha provocato più gatte da pelare a Fidel e Raúl Castro. Per questo non può uscire da Cuba.

 

Camila Vallejo non ha voluto incontrarti quando è venuta a Cuba. Quale credi che sia il motivo?

Non solo non ha voluto incontrare me, la richiesta proveniva da diversi ambienti, da persone che non militano in alcun partito ma fanno parte della società civile. Purtroppo, Camila si è lasciata irretire dalle indicazioni governative ed è stato un vero peccato perché la sua immagine internazionale pare l’esatto contrario. Si mostra contestataria e coraggiosa, ma a Cuba si è lasciata pilotare dal governo e rinchiudere in un programma prestabilito. La sua immagine ne è uscita distrutta ed è stato uno spettacolo penoso. Il governo castrista si è rinforzato usando l’immagine di Camila e al tempo stesso ha danneggiato la sua essenza più irriverente.

In una recente intervista rilasciata a Publimetro, Camila ha detto che il problema non è che il comunismo è fallito ma che “non è mai esistito un vero comunismo”. È proprio così?

Concordo con la sua opinione, ma il fatto che il comunismo non è stato mai messo in pratica non assolve le persone che dicono di averlo praticato. Il partito di Cuba è il Partito Comunista e sui cartelloni politici che si trovano ovunque c’è scritto che questo è socialismo. Allora, o Camila Vallejo sta smentendo i governanti dell’isola, cosa molto positiva, o siamo vittime di un miraggio.

Chi non ha mai frequentato il tuo blog potrebbe pensare che dedichi tutti i tuoi post ai fratelli Castro. In realtà è fatto soprattutto di molte cronache della vita quotidiana dell’isola…

Il problema è che io non sono un’analista, mi considero fondamentalmente una cittadina che racconta ciò che accade intorno a lei. Non pretendo di trarre conclusioni, ma solo che il lettore si renda conto dei problemi quotidiani narrati da una persona che deve fare la coda per il pane, soffrire i problemi del trasporto e che deve pure affrontare la censura.

Una delle riforme più importanti fatte da Raúl Castro è stato il permesso di comprare e vendere case e auto. Coma procede questo cambiamento?

È stata la riforma raulista più rischiosa, perché si trattava di un settore paralizzato, che viveva nell’illegalità da quattro decadi. Noi cubani non eravamo realmente proprietari delle nostre case. La compravendita di case può distruggere uno dei simboli fondamentali del sistema: un supposto egualitarismo. Adesso stiamo vivendo una fase di redistribuzione della popolazione nei diversi quartieri. I nuovi ricchi, che magari non avevano ereditato una buona casa, hanno l’opportunità di comprare case grandi e situate in migliori posizioni. Tutto questo comporterà a medio termine una redistribuzione della popolazione, ci saranno quartieri ricchi e quartieri poveri.

Ti sembra una riforma positiva?

Sì, e inoltre mi fa piacere che sia stata fatta dal castrismo, perché se l’avesse dovuta fare qualcun altro, i difetti della riforma sarebbero stati attribuiti al liberalismo. Il problema reale è che non esiste un mercato immobiliare, non ci sono annunci pubblici di vendita, quindi la diffusione delle informazioni si realizza, proprio come prima, nella illegalità. La riforma è positiva, ma è incompleta

I tuoi critici dicono che sei dalla parte degli Stati Uniti. È così?

È il cartellino che il governo cubano appende su tutti coloro che osano criticare lo Stato, l’argomento viene usato come la metafora del lupo nei racconti infantili. Quando qualcuno crea problemi a chi governa tentano di associarlo con gli Stati Uniti. In ogni caso, Fidel è più filo statunitense di me, parla sempre degli Stati Uniti, pensa sempre agli Stati Uniti, ha vissuto in quel paese ed è là che ha imparato l’inglese. La sua grande ossessione della vita è contrastare le politiche di Washington. Io sono una cittadina cubana che non vuole andarsene dal paese, amo Cuba, ma la vorrei vedere senza alcun tipo di ingerenze. Siamo stati per molto tempo un satellite dell’Unione Sovietica, cosa che ha sminuito la sovranità nazionale. Dobbiamo recuperare la nostra indipendenza.

Quindi, senza ingerenze, né del Venezuela, né degli Stati Uniti...

Esattamente. Non possiamo finire nelle mani di un altro impero, né possiamo essere dipendenti, come adesso, che la nostra sorte è legata alla salute di Hugo Chávez, dipendiamo dai centomila barili di petrolio che manda ogni giorno. In futuro ci dovrà essere maggiore partecipazione di tutti i cubani, perché il nostro paese non è limitato al territorio insulare. Oltre due milioni di cubani vivono all’estero, e quando il governo cubano parla di ingerenze, in realtà parla del diritto sovrano dei cubani che vivono fuori dall’isola di decidere, esprimere un’opinione, votare.

Dicono ancora i tuoi critici che l’intervista che hai fatto a Barack Obama non sarebbe vera, affermano che non è stato lui a rispondere, questo secondo un rapporto di Wikileaks….

L’intervista a Barack Obama è stata ratificata dal Dipartimento di Stato e dalla Casa Bianca. Per me è più che sufficiente. Il rapporto di Wikileaks dimostra soltanto che Obama ha inviato le sue risposte per una revisione al suo rappresentante all’Avana. Mi sembra una cosa normalissima, perché un presidente ha un gruppo di lavoro, persone con cui riguarda certe cose prima di renderle pubbliche. Il problema è che a Cuba siamo abituati al fatto che per 53 anni Fidel Castro non si è mai lasciato consigliare da nessuno, non c’è mai stata una persona in grado di dirgli: “Comandante, così non va bene”. Il rapporto di Wikileaks dimostra solo che Obama lavora in équipe.

Cosa pensi del divieto di partecipazione per Cuba al Vertice Panamericano?

In questo tema c’è molta confusione, ma noi cubani stiamo riuscendo a capire. Cuba non è stata esclusa, l’escluso è solo il governo cubano, che non rappresenta tutti i cubani. La censura ha fornito al governo cubano un magnifico argomento per rinforzare la propaganda basata sul vecchio leitmotiv: il mondo ci mette da parte e visto che viviamo sotto assedio, “dissentire equivale a tradire”. Io avrei preferito che il governo cubano fosse invitato a partecipare e che in tale sede gli dicessero tutto quel che non va bene, ciò che avrebbe dovuto fare e che non ha fatto. A mio parere l’argomento delle Malvinas e il tema di Cuba hanno assunto un’importanza troppo vasta in Vertice Panamericano che avrebbe potuto dare maggiori risultati.

Cosa pensi del visto concesso dagli Stati Uniti a Mariela Castro, la figlia di Raúl?

È un gesto distensivo fatto dal governo degli Stati Uniti nei confronti del governo cubano. Mariela ha bisogno di partecipare a dibattiti che non siano come gli incontri protetti ai quali è abituata all’Avana. Le due volte che ho avuto l’occasione di scambiare opinioni con lei, una di persona e l’altra su Twitter, è stata aggressiva e infantile. La prima volta mi ha dato della “gallina”, e su Twitter ha definito me e altri blogger “vermi spregevoli”. Una persona che si occupa del tema della diversità e della tolleranza deve apprendere che la diversità non è soltanto la libertà di scegliere la persona con cui andare a letto, ma anche quale giornale leggere e quale partito seguire. La cosa curiosa è che Mariela Castro è stata invitata a una conferenza organizzata dal Latin American Studies Association di San Francisco, un evento molto importante che si tiene ogni due anni. L’ultima edizione ha avuto luogo a Toronto e io ero invitata a una tavola rotonda sulle nuove tecnologie, avevo il visto canadese, ma il governo cubano non mi ha dato il permesso di uscire dal paese.

Il suo sostegno ai diritti dei gay è forse la sola cosa che condividi con Mariela Castro…

Mariela ha fatto molto per la comunità LGTB cubana. Ha aiutato un popolo machista ad aprire un poco di più la mente. Ma la mia critica principale nei suoi confronti è che la comunità LGTB cubana è capace di rappresentarsi da sola, non ha bisogno di un eterosessuale, né di una persona del governo che la rappresenti.

Mariela è il volto nuovo del regime castrista?

Non credo che abbia ambizioni politiche, ma il tema che sta trattando e la dolcezza che trasmette nei mezzi di comunicazione ufficiali cercano di rendere più lieve quel patriarcato militare tipico del castrismo. Senza dubbio la sua presenza rappresenta un elemento di moderazione.

Sei diventata molto assidua di Twitter. Come puoi usare così spesso Twitter, visto che ogni messaggio costa un dollaro e la connessione a Cuba è così complicata?

Qui non abbiamo Internet in casa, l’accesso domestico è un privilegio riservato alle persone politicamente corrette. Noi cittadini possiamo solo andare in un hotel e pagare sei dollari per un’ora di connessione. Adesso, dopo molti anni che lavoro in maniera privata e dedico le mie risorse personali a Twitter, questo è il lusso che ho deciso di concedermi, perché a Cuba l’informazione è un lusso. Inoltre, molti amici di Twitter mi aiutano pagandomi la connessione. La scelta è tra fare così o tacere. Preferisco che mi accusino di spendere un dollaro a messaggio e non che i miei nipoti mi accusino di essere stata zitta di fronte a quel che accade.

Ti impediscono di uscire da Cuba. Per quale motivo pensi che lo facciano?

In primo luogo perché sanno che tornerei. Quando si rendono conto che una persona è scomoda, cercando di obbligarla ad andare in esilio, in 53 anni di regime si sono sempre liberati in questo modo dei non conformi. Ma io non voglio vivere in nessun altro posto del mondo che non sia questa isola e loro lo sanno bene. Temono che le persone possano ascoltarmi e questo potrebbe contribuire a eliminare molte menzogne che sono state dette sul mio conto. Inoltre non mi lasciano uscire come una forma di punizione: sono come una bambina che Papà Stato non fa uscire di casa.

Tu e la tua famiglia come affrontate questa situazione?

Quando conobbi mio marito Reinaldo (Escobar), nel 1993, lui era già un giornalista espulso dai mezzi di comunicazione ufficiali. Abbiamo intrapreso una strada comune per crescere come persone. Con nostro figlio non abbiamo mai avuto difficoltà, lui è al corrente di tutto. Ho perso molti amici in questi cinque anni, gente che teme di incontrarmi, di bussare alla mia porta, ma al tempo stesso ne ho incontrati molti. Questa situazione mi è servita per riconoscere i veri amici, e nonostante l’assedio psicologico, la vigilanza sotto la mia casa, i controlli telefonici, sono riuscita a fare della mia famiglia una roccaforte unita.

Proprio in merito alla sorveglianza di cui tu e Reinaldo siete vittime, hai scritto: «Facciamogli (al poliziotto che sorveglia) staccare l’orecchio dalla parete oppure, obblighiamolo a scarabocchiare su un foglio: “1.30 a.m., gli obiettivi stanno comportandosi come persone che si amano”». Gli obiettivi effettivamente si amano, no?

Esatto, loro possono riuscire a denigrare la mia immagine su Internet, insultarmi, possono seguirmi per tutta L’Avana, o avere apparecchi GPS che individuano dove mi trovo, ma non possono toccare le cose che mi rendono felice, come i cuori delle persone che mi sono vicine. Questo è quel che cerco di difendere, e al tempo stesso, la principale protezione che in questo momento possiedo.

 

Lorena Chauca

(da Publimetro Perú, 24 maggio 2012)

Traduzione di Gordiano Lupi


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