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Plevano incontra Franco Colnaghi
'Albero bianco', 2010 - cemento e acrilico, cm 35x35 
27 Marzo 2012
 

Questa primavera ho frequentato lo studio grafico di Franco Colnaghi per un mese circa per la preparazione del mio nuovo catalogo “Route des Serres” e ho avuto il piacere di vedere le sue opere pittoriche appese alle pareti e dialogare con lui sullo scibile umano. N'è nata un'amicizia sincera dati gli interessi comuni artistici ed esistenziali. Ci sono persone che senti istintivamente vicine nel modo di percepire la realtà che ci avvolge, il dialogo diventa subito profondo e stimolante e appaiono all'improvviso nuove visioni, un nuovo senso si costruisce. Per giorni ci siamo ritrovati seduti accanto davanti allo schermo del pc nella correzione dei testi e nell’impaginazione delle immagini, ma ogni tanto sollevavo lo sguardo e vedevo due sue opere bellissime, due alberi dipinti in modo personalissimo, complessi, stratificati, profondi, enigmatici, labirintici, insondabili. Più che due alberi mi sembravano cervelli umani, filamenti nervosi in espansione con migliaia di interconnessioni.

Andavo oltre e mi appariva un universo oscuro e indecifrabile sorretto però da un ordine supremo. Girando la testa a destra e sulla parete vedevo invece opere pittoriche che facevano pensare a circuiti elettronici di personal computer, anche qui percorsi inestricabili, labirintici che solo una mente scientifica avrebbe forse potuto decifrare. Questo era l’ambiente e il clima in cui mi son trovato e la prima cosa che mi ha colpito è stata la grande modestia di Colnaghi nel parlare delle sue creazioni, e mi son chiesto come fosse stato possibile che un artista di questo livello non avesse fatto ancora mostre importanti e la così detta “critica ufficiale” non si fosse ancora accorta di lui, dopo aver curato centinaia di cataloghi per altri così detti artisti. Io mi muovo e scrivo solamente quando sono spinto da sincera ammirazione per l’opera ma in questo caso, unico e raro, è anche il personaggio che mi ha incuriosito. Devo premettere che questo testo sarà come un flusso di coscienza libero e non mediato da costruzione linguistiche omogenee e ben articolate. È la parola scritta che è esplosa in una miriade di significati tra loro anche contraddittori, è la precarietà di senso che ci avvolge in continuazione, la consapevolezza del passaggio epocale che viviamo nel naufragio dei grandi ideali collettivi della modernità occidentale. Con Colnaghi questo flusso di coscienza è stato possibile perché appunto ci trovavamo su lunghezze d’onda simili e compatibili per una disquisizione disintegrata sul senso delle cose e della vita. I nostri occhi imbambolati a volte si incrociavano nello scioglimento delle parole stanche e cercavamo un filo comune d’intesa e comprensione.

La sua frequentazione mi ha aiutato anche a superare un momento triste, in quei giorni era terminato il massacro di sette mie opere ambientali che il Comune di Buccinasco mi aveva chiesto e inserito in un parco di fontanili per la fruibilità della collettività. Ebbene dopo qualche mese era iniziata l’opera di devastazione da parte di sconosciuti con sassi, mattoni. Per quella più grande (un’opera di 20 metri per 4 issata su un telaio in ferro alto 6 metri) sono intervenuti con una scala e una lama con un taglio longitudinale per tutta la sua lunghezza. Ironia della sorte, ogni giorno vi passo davanti per recarmi a casa, ma prima della mia opera distrutta devo superare sulla stessa strada un centinaio di mega pannelli pubblicitari con in prevalenza tette e culi di donne che propongono qualcosa da vendere e che rimangono sempre miracolosamente intatti e mai scalfiti da vandalismi. Questo è il segno tragico di questi nostri tempi osceni e repellenti ma poi volgo lo sguardo verso un albero o una zolla d’erba e nella natura cerco un filo di speranza, che rimetta in in sesto questa povera umanità anestetizzata e disintegrata da un sistema di non valori alla deriva.

Dopo qualche giorno trovavo casualmente nella sua libreria tre cataloghi di poesia di Donato di Poce, Franco Spazzi, Emilio Russo con sue opere a compendio, e così scoprivo un suo nuovo alfabeto di segni, un nuovo desiderio di costruzione del reale, percorsi lievi di vita vissuta nella leggerezza dell’essere nell’inferno tecnologico, burocratico, pubblicitario quotidiano. A fronte di ogni poesia appariva una traccia di segni, di masse, di suoni, di tensioni, di intervalli sempre in divenire con una inventiva continua che si rigenerava in modo personale rivelando la molteplice versatilità comunicativa di Colnaghi. La poesia “Il sorriso del vetro” era inserita in un big bang puntiforme con più centri radianti energia, stupefacente concentrazione di materia cosmica in divenire. Ne “Il segreto” vi era una perfetta correlazione tra immagine e parola dove il pittore e il poeta si incontrano «là dove è nascosto il segreto, la terra groviglia parole. Pochi suoni respirano incerti». Stupefacente sintesi del caos demenziale in cui siamo immersi in questi tempi di sconcia comunicazione. Questa poesia con relativa immagine se potessi la farei esporre a grandezza umana su tutti i portoni dei palazzi del potere per ricordare a parecchi cialtroni che la parola è sacra a va usata con parsimonia e sincerità. Me la immagino sulla facciata del Parlamento con tutti i nostri politici obbligati a leggerla ad ogni entrata e uscita. Esilarante operazione artistica concettuale che farebbe sobbalzare di piacere Nietzsche, Duschamp, Pasolini. In “Uomini postumi” l’immagine media tra geometria puntiforme in espansione e un groviglio inestricabile in una fluidità sconnessa, «seguiamo una bussola incerta ci sarà mai un altro Egitto a cui tendere?.... sopravvissuti a stento continueremo ancora a cantare le nostre canzoni sparse nel vento di un’alba che stenta a venire». In “ferite” sulle due pagine si confrontano magistralmente una forma geometrica costruttiva con linee verticali serialmente strutturate a fronte di un groviglio di segni timbrici e complementari in espansione, geniale sintesi di istinto e ragione, cultura e natura «…ma grumi di sangue bevono acri. Si procede a tentoni per perdere luce e sapere. E cubiche forme di sale premono dure ai tagli d’arsura».

Questo ero lo scenario che mi appariva nello studio ma all’ora di pranzo staccavamo per recarci in un ristorante cinese per il pasto e qui iniziavano discussioni tragicomiche sulla globalizzazione mondiale. Su tutto aleggiava l’incertezza per il futuro, cosa sarebbe successo all’essere umano alla fine di un sistema capitalistico e consumistico esasperato. Nel locale tutto era efficiente, pulito, il cibo buono e i prezzi modici. Vedevamo un popolo giovane che si affacciava fiducioso al mondo capitalistico con intraprendenza e buona volontà e soprattutto credeva in quello che faceva. Gli italiani sono più stanchi e disillusi sul lavoro, il fervore nascente dei cinesi forse non si trova più così nel nostro popolo. La civiltà occidentale la vedo alla deriva, siamo giunti alla fine di un sistema e ci attende l’incognita del futuro. La vecchia cara Europa con la sua cultura, la sua scienza si trova schiacciata tra la Cina e l’Oriente da una parte e l’America dall’altra. Enormi strategie finanziarie la stanno massacrando in nome di nuove egemonie imperialistiche. È necessario a questo punto e per la sopravvivenza generale un nuovo assetto globale, siamo tutti ormai nella stessa barca, interconnessi gli uni con gli altri, dovrà mutare l’aggressività umana di rapina e predominio per far nascere un uomo nuovo, responsabile e rispettoso delle esigenze comuni. È forse una ingenua utopia ma la faccia feroce del potere dovrà soccombere altrimenti sfumeremo tutti in un gran calderone infuocato, la terra con tutti i suoi fardelli evaporerà in una bolla vuota, fredda e inconsistente nell’enigmatico universo. Riprendo dopo alcuni giorni, la scrittura è lenta, faticosa, la parola è esplosa in una miriade di significati, di connessioni logiche e illogiche, di controsensi logori. La realtà oggi 16.12.2011 è veramente confusa e in affanno. È successo di tutto in questa povera Italia, siamo allo sbando in tutti i sensi e l’arte è l’ancora di salvezza, la poesia ci dona ancora un senso all’esistenza.

L’altro giorno ho sentito Colnaghi al telefono per avvisarlo che avevo iniziato a scrivere su di lui. Era contento e mi ha proposto una mostra assieme e che avremmo trovato il modo di pubblicare il testo magari facendo riprendere la pubblicazione della gloriosa rivista Arte incontro nella quale avevo già pubblicato una trentina di articoli interviste ad artisti che stimavo, e che era stata interrotta per la crisi economica che attanaglia tutti. L’altra sera però inaspettatamente Giacomo Lodetti, l’editore, nella sua libreria mi ha proposto di raccogliere in un libro tutti i miei articoli con immagini mie e degli intervistati e questo mi ha dato energia per concludere alla grande questo testo. La vita è proprio imprevedibile e il flusso poetico desiderante travolge tutto e tutti e quel simpatico cavallo pazzo di Giacomo arriva sempre puntuale con le sue iniezioni di ottimismo, di fiducia, d’incoraggiamento. Ripenso alle sue centinaia, forse migliaia di iniziative culturali portate avanti su un vascello fragile economicamente ma glorioso come la Libreria Bocca in venti anni di intensa attività culturale e la battaglia vinta per evitare la sua chiusura da parte di una amministrazione comunale inqualificabile. Il grande merito della libreria Bocca e del giornale Arte Incontro e stato quello di dare voce alle istanze culturali spontanee svincolate da qualsiasi tenaglia condizionante ed omologante di una spudorata industria culturale finalizzata esclusivamente al mercato delle vacche, attenta solo al gusto decerebrato di un pubblico anestetizzato da un ventennio di osceno e volgare bombardamento mediatico.

L’altro giorno ho letto sul più importante quotidiano un articolo strabiliante del più grosso collezionista mondiale d’arte moderna che smascherava, diciamo sputtanava lo stato delle cose del mercato dell’arte con relativa iper valutazione di artisti ad effetto ma fasulli e qualche giorno dopo un bellissimo articolo “L’inverno della cultura” di Jean Clair, direttore del Centre Pompidou, poi del Musèe Picasso e nel 1995, direttore della Biennale di Venezia del Centenario, parlare di mattatoi culturali nella follia consumistica in un tempo del disgusto globale. Quando il sole della poesia è basso all’orizzonte, anche i nani proiettano lunghe ombre. Che il mondo stia per rinsavire, e mi son chiesto “che l’orgia del non senso stia per terminare?”. Nelle lunghe chiacchierate al ristorante cinese ci chiedevamo spesso cosa sarebbe successo alla fine della lunga notte, con scenari inquietanti e imprevedibili. Prima avvenivano grandi guerre a ristabilire un nuovo ordine, catastrofi con lutti e sofferenze atroci per poi risorgere dalle macerie con nuove speranze di pace e prosperità materiale e spirituale. Ora navighiamo in una realtà viscida, melmosa e maleodorante con «un mercato finanziario feroce» (così ha detto il nostro attuale presidente del consiglio), in cui il principio di realtà sfugge alle più elementari regole di vita. Ma poi penso a cosa hanno patito i nostri genitori, i nostri nonni che partivano per la guerra per uccidere o essere uccisi e le bombe che squartavano quartieri e città con donne, vecchi e bambini terrorizzati sotto le macerie. Questo divagare ci riportava all’arte e alla sua funzione, al perché due uomini ultra sessantenni avevano dedicato la loro vita ad assemblare forme e colori sacrificando tempo e denaro per qualcosa che non rendeva nulla economicamente in una società rigidamente strutturata al mercato, al consumo, al guadagno. L’arte però è stata la nostra ancora di salvezza, l’immaginario poetico della creazione di mondi ci ha salvato dalla noia ripetitiva del triste quotidiano.

Abbiamo navigato in mari sconosciuti aggrappati a fragili vascelli in perenne ricerca di isole accoglienti e molte isole abbiamo trovato in cui la vita trovava un senso magico e prolifico di nuove energie. Trovavo nello sguardo di Colnaghi lo stupore infantile della scoperta e il piacere complice della comunione d’intenti poetici nella visione della vita. Ripensando ai suoi alberi così labirintici e stratificati, vedevo il percorso di una umanità in affanno nella perenne rincorsa di una meta, di una luce, di un calore, e si intuiva nel groviglio delle interconnessioni una grandiosa visione unitaria di pace ed equilibrio, pensavo alla nona sinfonia di Beethoven, al Paradiso di Dante, all’Ulisse di Omero e di Joyce, alla montagna Saint Victoire di Cézanne, sublimi favole dell’ingegno dell’uomo in cui il principio ineluttabile di contraddizione viene esorcizzato, neutralizzato, ridicolizzato nella visione salvifica finale.

 

Roberto Plevano


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