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Alessandro Rivali. Tranströmer, il vero segreto di un Nobel
12 Marzo 2012
 

Il grande mistero (Crocetti, Milano 2011) è l’ultima raccolta tradotta in Italia del poeta Premio Nobel Tomas Tranströmer (Stoccolma 1931). Si tratta di uno straordinario libricino di frammenti e folgorazioni in cui risplendono i due assi cartesiani dello scrittore svedese: la densità di contenuto e la concisione formale, come ha ricordato la sua principale traduttrice Maria Cristina Lombardi. Ci si può avvicinare alla scrittura del poeta nordico immaginando di essere di fronte a un monaco immerso nei ghiacci: è in silenzio e contempla la natura senza mai stancarsi. La sua poesia, paziente, esatta, trasparente, è un codice miniato, un “oscuro cristallo” che s’innesta nella tradizione della poesia europea con un forte debito nei confronti del Simbolismo e anche del correlativo oggettivo di T.S. Eliot: la natura ostile e desolata (eppure fitta di voci sommerse) diventa così la principale metafora della condizione dell’uomo. Nel Grande mistero la dominante compositiva è costituita dagli haiku, le meditazioni “in miniatura” della lirica giapponese in cui il poeta ha a disposizione solo tre versi per raccontare il mondo.

Tranströmer è un poeta essenziale (le sue 14 raccolte sono decisamente brevi), innamorato della figura retorica della reticenza (come da noi Giampiero Neri). È un sognatore che ci porta per mano negli scenari primordiali del grande Nord. Nei “mari baltici”, nelle terre abitate dal vento («un vento pungente / stanotte soffia per la casa - / i nomi dei demoni» (p. 39), da boschi spiritati e inquieti («pini spettrali / sulla stessa tragica palude. / Ancora e sempre» (p. 41), e dalla «gabbia di tenebre» (p. 41). Come ogni poeta che si rispetti dalla saga di Gilgamesh in avanti, Tranströmer mette sotto luce frontale il tema della morte (tra le più recenti raccolte si trovano titoli eloquenti come Per i vivi e morti e La gondola a lutto); la sua interrogazione assiderata sul Dopo rende più limpido lo sguardo sul presente. Consapevole di dover «varcare la soglia oscura», sembra quasi che voglia giocare a scacchi con la morte, negli stessi lividi scenari che furono del Settimo sigillo (1957) del connazionale Bergman: «La morte si china / su di me, un problema scacchistico…».

Tranströmer è un cacciatore di immagini e di epifanie fuori dall’ordinario, per questo il suo nome circolava da tempo tra i possibili candidati al Nobel, per questo si sono spesi per lui poeti del calibro di Brodskij (Nobel 1987), di Derek Walcott (Nobel 1992) e di Seamus Heaney (Nobel 1995) che si lasciarono sedurre dai suoi accostamenti vertiginosi e spiazzanti. Nei suoi versi si incontrano infatti capre che brucano il fuoco, fuochi fatui che si alzano dall’asfalto come mendicanti, cavalli magri «come le grigie allegorie della peste». E altrettanto “magiche” sono le sue invenzioni oniriche: «Sognai che avevo disegnato la tastiera del piano / sul tavolo di cucina. La suonavo, muto. / I vicini entravano ad ascoltare».

Per chi volesse conoscere gli albori del suo laboratorio creativo, è davvero prezioso il quaderno biografico I ricordi mi guardano appena pubblicato (con una splendida copertina) dalle edizioni Iperborea. In una manciata di pagine il poeta rievoca la propria infanzia: il quartiere Söder a Stoccolma, il nonno pilota di rimorchiatori, la madre insegnante elementare, gli infiniti disegni che riempivano di storie i rotoli di carta bianca. Impariamo che lo stupore per la natura segnò il poeta fin da bambino, che scelse il “babilonico” e “inesauribile” Museo di Scienze naturali come una seconda casa prediligendo in particolare il reparto degli invertebrati. Ecco un significativo ricordo del giovane “cacciatore di insetti”: «Ero sempre fuori in perenni spedizioni. Una vita all’aria aperta senza il minimo interesse salutistico. Non avevo ovviamente alcun punto di vista estetico sulle mie prede – si trattava di Scienza – ma senza rendermene conto feci molte esperienze di bellezza. Mi muovevo nel grande mistero. Imparavo che la terra era viva e che esisteva un mondo infinitamente grande che strisciava…».

La poesia di Tranströmer così schiva e pudica, così intessuta di silenzi e di rarefazioni, cerca sempre l’Oltre, con una spiccata tensione metafisica che scandaglia le distese dei mari, delle nebbie e dei ghiacci in cerca dell’Origine. Se ci si immerge nei suoi versi si può sfiorare davvero il «grande mistero», avvertire che la luce lentamente si fa spazio tra le brume e come sia presente «il vento di Dio nella schiena».

 

Alessandro Rivali

(da La Bussola Quotidiana, 10 marzo 2012)


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