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In libreria/ Gilles Ortlieb. Piccolo Ducato di Lussemburgo
11 Settembre 2011
 

Il Granducato di Lussemburgo diventa Piccolo Ducato di Lussemburgo (in francese Petit-Duché de Luxembourg). Un titolo ironico per una raccolta di poesie di matrice assolutamente differente.

L'autore, Gilles Ortlieb, poeta, prosatore, traduttore, di nazionalità francese, con genitori e nonni alsaziani, è nato nel 1953 in Marocco e ha una moglie che vive in Grecia. Più cosmopolita di così non si può. Arrivato in Lussemburgo in via definitiva nel 1986, avendo superato un concorso come traduttore dal greco al francese, e destinato alla Segreteria del Parlamento Europeo a Lussemburgo, ha finito per stabilirvisi, lasciando tuttavia l'impressione che la sua situazione fosse sempre provvisoria (questo almeno sino alla pubblicazione dell'antologia, datata 2007). Una sorta di spiazzamento e spaesamento logistico-esistenziale, una non rassegnata rassegnazione, di cui le poesie recano ampia traccia.

Piccolo Ducato di Lussemburgo è un libro dotato di una sorta di atemporalità, resa ancor più evidente dal corpo delle fotografie color seppia inserite nel corpo del volume, anch'esse opera di Ortlieb.

Un libriccino di modeste dimensioni, ma nel suo apparente esser dimesso di potente impatto. Una meditazione dolente, malinconica, sullo scorrere inevitabile dei giorni, lo spettro delle scelte-non scelte che ci scivola addosso, veste grigia e pur bruciante. «Piccola città dai riflessi di carbone e di stagno,/ dagli alberi morti piantati vivi sui bastioni,/ alte radiografie di polmoni su sfondo di cielo/ spento. E si vorrebbe dubitare di ciò che si vede». E ancora... «case basse e giardinetti, per un attimo nascosti/ dai fianchi di un convoglio della Transcérealière./ Fari mobili, lanciati nell'oscurità e già spenti;/ passaggio senza tracce, basta che il treno acceleri di nuovo/ e scivoli, come prima, ai bordi di una campagna gelata/ per filare una volta ancora verso l'est e il nulla». La proiezione di sé nelle cose, l'anonimato raggiunto (quasi una meta), un senso di desolazione infinita: è come se quelle case non fossero abitate né vi fervesse alcun sentimento, come se quei giardinetti fossero amorfi e senza cura, come se quel treno non avesse piloti, e la campagna gelata tutto nascondesse. Ma il seme deve pur germogliare sotto quello strato di gelo.

«La luna che scivola sulle vetrate,/ le facciate dispiegate dei sobborghi:/ saranno mai stati abitati?/ Un viadotto gettato sulle strade/ tiene ancora agganciate le due metà/ della città, nell'ipotesi eterna/ di un ultimissimo passante che s'allontana/ titubante, con gesti da sordo», è la conferma del divorante dubbio che non trapela ma macera.

«L'industria, a Esch-sur-Alzette, resta onnipresente/ e pesante: fumi ocra sputati contro la frontiera,/ gasdotti che corrono lungo la campagna, altiforni,/ ciminiere e strade ferrate. A fine settimana,/ famiglie portoghesi e ragazzine immacolate/ posano, al gran completo, nei giardini pubblici,/ la vetrina dei panettieri s'orna di dolci a più strati,/ e stormi di campane, come al passar dei treni,/ fanno tremare a lungo questa vecchissima domenica/ in cui l'Alzette si strema a correre, in solitudine, tra gli opifici». La nera cattedrale di un'industria – anche qui, dove sono gli operai, le presenze vive? Sono indovinate, supposte, presagite, silenti –, e gasdotti, altiforni, ciminiere, strade ferrate, cose sempre cose solo cose manufatti umani senza umani, ma a fine settimana giungono a spezzare questo maledetto incanto “famiglie portoghesi e ragazzine immacolate”, gioia allegria innocenza calore di affetti, “posano, al gran completo, nei giardini pubblici”, ancora cristallizzati?, “la vetrina dei panettieri s'orna di dolci a più strati/ e stormi di campane” nella “vecchissima domenica”, e, di nuovo, la solitudine nella stremata corsa dell'Alzette. Il liquido cerchio della solitudine, a cui episodicamente si trova un pallido rimedio, irrinunciabile tuttavia.

«Un vecchio uomo pensoso, proteso/ ai piedi della scarpata della ferrovia,/ appena dopo la stazione di Mondelange./ Soltanto questo: il vecchio uomo/ della scarpata, prima di Hagondange». Un'apparizione, quasi fantasmatica, chi sa dei suoi ricordi, delle sue pene? “Soltanto questo: il vecchio uomo/ della scarpata”, il suo precario equilibrio fra stasi e pericolo.

La chiusa sia affidata ai seguenti versi: «Rumori di luglio, le piccole forbici aguzze/ dei rondoni verso cui ci si volge/ macchinalmente, come fanno i giovanotti,/ addossati, in banda, al passar delle figliole. I campi/ non sono così lontani e si dovrebbero veder, dai treni,/ dei ragazzini affaccendarsi accanto ai fiumi, a torso nudo./ La notte indugiante si annuncia chiara, le grida/ che salgono dalle terrazze tarderanno un po' a scemare/ ma forse anche domani noi saremo, senza saperlo,/ svegliati prima del tempo da odori sconosciuti».

Devo confessare che questo volume di 48 pagine (casa editrice Convivium, eccellente la traduzione di Serenella Pirotta Stefinlongo e Daniela M. Panigada) è fra le opere più belle che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni. Parole che ti entrano dentro come impietose affilate lame: portano algido dolore, ma anche, in mentale colloquio con il lettore affascinato e con la semplice dirompente forza del logos, speranze non sopite.

 

Alberto Figliolia


 
 
 
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