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Maria G. Di Rienzo. Un metro quadrato alla volta
07 Giugno 2011
 

Quando si dice “ricucire” una nazione. O, se volete, persino “conquistarla”. Rimetterla insieme, renderla di nuovo vivibile dopo trent'anni di guerra civile e 40.000 civili uccisi in essa. Lo stanno facendo le donne in Sri Lanka, un metro quadrato alla volta. Sono le squadre delle sminatrici.

La guerra nel paese è cessata da due anni, ma ambo le parti in causa hanno disseminato ovunque mine antiuomo e il numero delle stesse e i siti ove esse si trovano non sono certi: le stime parlano di centinaia di migliaia di ordigni sepolti. Le fabbriche nella giungla delle Tigri del Tamil sfornavano migliaia di bombe ogni settimana: i campi minati creati dal loro esercito hanno coperto praticamente l'intera isola, nel tentativo di creare una barriera che separasse il nord dominato dai guerriglieri dal sud sotto il controllo del governo. Ma nelle settimane finali del conflitto, mentre fuggivano davanti all'avanzata dell'esercito dello Sri Lanka, le Tigri hanno “minato a caso”, senza uno schema o uno scopo preciso. Hanno piazzato bombe attorno agli alberi, attorno alle case e ai pozzi, sui sentieri: ovunque soldati e persone comuni avrebbero potuto posare i piedi camminando.

Ora, in un dopoguerra quasi senza uomini, tanti ne sono morti e scomparsi, le donne sono i soli sostegni economici delle loro famiglie. Fanno i lavori che vengono loro offerti: e uno e' quello di ripulire le ferite del loro paese, una mina alla volta.

Yogalingam Rubaganthy, ventinovenne, sminatrice sul campo per un anno, sta ora addestrando una squadra di sole donne: «È un lavoro difficile. Adesso il clima è caldo e secco ed è difficile stare tutto il giorno all'aperto e restare concentrate. Ma le donne possono farlo come chiunque altro, hanno le capacità per farlo». Yogalingam ha perso il padre, una sorella e due fratelli quando la sua casa a Kilinochchi è stata bombardata. Le è rimasto un fratello minore, che ora è tornato a scuola. «È la ragione principale per cui siamo tutte qui. Siamo responsabili per le nostre famiglie. Io voglio aver cura della mia, ma il mio lavoro è anche di beneficio al paese. Quando fuggivo dai combattimenti ho passato mesi in un campo di internamento per rifugiati di guerra. I campi non sono bei posti per viverci, e ci sono dentro ancora troppe persone: hanno bisogno che le loro terre siano liberate dalle mine per poter ritornare, per poter ritornare a vivere».

Anche Egambaram Renathani la pensa così. I suoi due fratelli e sua sorella sono stati uccisi dalle mine. Lei è tutta la sua famiglia, ora: «Mi sono messa d'impegno a imparare. È duro, ma è importante per il mio paese. Sono orgogliosa di fare questo lavoro».

A volte, guardando da lontano queste giovani donne in tutto il mondo, l'unica cosa che riesco a pensare e dire è “grazie”. Mi piacerebbe abbracciarle, cucinare per loro, ridere e piangere con loro, ma non posso. Allora le racconto.

 

Fonti: The Sidney Morning Herald, Women's International Perspective.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Lunanuvola's Blog, 6 giugno 2011)


 
 
 
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