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Ivana Cenci. Albert Camus, Né vittime Né carnefici - 4. 
LA RIVOLUZIONE TRAVESTITA (Ni victimes Ni bourreaux, 1946)
01 Febbraio 2011
 

A partire dall’agosto 1944, nel nostro paese tutti parlano di rivoluzione, e sempre sinceramente: non ci sono dubbi a tale proposito. La sincerità, tuttavia, non è in se stessa una virtù. Ci sono sincerità così confuse da essere peggiori delle menzogne.

Non si tratta per noi oggi di parlare il linguaggio del cuore, ma soltanto di pensare in modo chiaro. Idealmente, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche, idoneo a far regnare più libertà e giustizia nel mondo.

Praticamente, è l’insieme degli avvenimenti storici, spesso infelici, che produce questo felice cambiamento.

Si può dire oggi che questa parola sia usata nel suo senso classico? Quando nel nostro paese le persone sentono parlare di rivoluzione, anche ammettendo che conservino il loro sangue freddo, esse immaginano un cambiamento di forma della proprietà (generalmente la messa in comune dei mezzi di produzione) ottenuto, o tramite una legislazione basata sulle leggi della maggioranza, oppure in seguito alla presa del potere da parte di una minoranza.

È facile vedere come questo insieme di nozioni non abbia alcun senso nelle circostanze storiche attuali. Da una parte, la presa di potere tramite la violenza è un’idea romantica che il progresso degli armamenti ha reso illusoria. L’apparato repressivo di un governo ha tutta la forza dei carri armati e degli aerei. Sarebbero quindi necessari dei carri armati e degli aerei soltanto per stabilire un equilibrio.

Il 1789 e il 1917 sono ancora delle date, ma non sono più degli esempi.

Supponendo che questa presa del potere sia comunque possibile, che si faccia in tutti i casi attraverso le armi o per via legale, essa avrebbe efficacia soltanto nel caso in cui la Francia (o l’Italia, o la Cecoslovacchia) potesse essere messa fra parentesi e isolata dal mondo. Perché, nella nostra attualità storica, nel 1946, una modifica del regime di proprietà comporterebbe, per esempio, ripercussioni tali sui crediti americani che la nostra economia ne risulterebbe minacciata a morte.

Una rivoluzione di destra non avrebbe più ampie possibilità, a causa dell’ipoteca parallela che ci crea la Russia, con milioni di elettori comunisti e con la sua posizione di massima potenza continentale. La verità, che mi scuso di scrivere chiaramente, mentre tutti la conoscono senza dirla, è che non siamo liberi, come Francesi, di essere rivoluzionari. O perlomeno non possiamo più essere dei rivoluzionari solitari perché non sussistono più, oggi, nel mondo, politiche conservatrici o socialiste che possano dispiegarsi sul solo piano nazionale.

Così, possiamo parlare soltanto di rivoluzione internazionale. Esattamente, la rivoluzione si farà su scala internazionale o non si farà. Ma qual è ancora il senso di questa espressione? Ci fu un tempo in cui si pensava che la riforma internazionale si sarebbe fatta attraverso la congiunzione o la sincronizzazione di più rivoluzioni nazionali; un’addizione di miracoli, in un certo modo. Oggi, e se la nostra analisi precedente è corretta, si può pensare solamente all’estensione di una rivoluzione già riuscita. È una cosa che Stalin ha visto molto bene ed è la spiegazione più benevola che si possa dare della sua politica (l’altra è rifiutare alla Russia il diritto di parlare in nome della rivoluzione).

Questo equivale a considerare l’Europa e l’Occidente come una sola nazione in cui un’importante minoranza bene armata potrebbe vincere e lottare per prendere alla fine il potere. Ma, dato che la forza conservatrice (nella fattispecie gli Stati Uniti) è altrettanto bene armata, è facile rendersi conto che la nozione di rivoluzione viene sostituita oggi dalla nozione di guerra ideologica. Più precisamente, la rivoluzione internazionale non procede oggi senza un estremo rischio di guerra. Qualsiasi rivoluzione futura sarà una rivoluzione straniera. Comincerà con un’occupazione militare oppure, il che equivale alla stessa cosa, con un ricatto di occupazione. E avrà senso soltanto a partire dalla vittoria definitiva dell’occupante sul resto del mondo.

All’interno delle nazioni, le rivoluzioni costano già molto care. Ma, in considerazione del progresso che si ritiene possano portare, generalmente si accetta l’inevitabilità di questi danni. Oggi, il prezzo che la guerra costerebbe all’umanità deve essere obbiettivamente comparato al progresso che ci si può attendere in seguito alla presa del potere mondiale da parte della Russia o dell’America.

E credo sia di importanza definitiva che se ne valutino i pro e i contro e che, per una volta, si provi ad immaginare cosa ne sarebbe di un pianeta, nel quale una trentina di milioni di cadaveri sono ancora tenuti occultati, dopo un cataclisma che ci costerebbe dieci volte di più.

Farò osservare che questo modo di ragionare è obbiettivamente corretto. Esso prende in considerazione soltanto la valutazione della realtà, senza assumere per il momento giudizi ideologici o sentimentali. Dovrebbe, in ogni caso, spingere alla riflessione coloro che parlano di rivoluzione con leggerezza. Quello che questa parola contiene in sé oggi deve essere accettato in blocco o rifiutato in blocco.

Se è accettato, ci si deve riconoscere responsabili consapevoli della guerra futura. Se è rifiutato, si deve, o dichiararsi sostenitore dello status quo, che significa l’utopia totale, dal momento che essa presuppone l’immobilizzazione della storia, oppure rinnovare il contenuto della parola rivoluzione, il che implica un’adesione a quella che chiamerò l’utopia relativa.

Dopo aver riflettuto un po' in merito a questo dilemma, mi sembra che gli uomini che desiderino oggi cambiare il mondo in maniera efficace debbano scegliere fra i cumuli di cadaveri che si preannunciano, il sogno impossibile di una storia che tutt’a un tratto si ferma, e l’accettazione di un’utopia relativa che lasci una possibilità all’azione e, nello stesso tempo, anche agli uomini. Non è tuttavia difficile rendersi conto che, al contrario, questa utopia relativa è la sola possibile, e la sola ispirata dal senso di realtà. Quale sia la fragile possibilità che potrebbe salvarci dalle carneficine, è quello che prenderemo in esame in un prossimo articolo.

 

Albert Camus, Ni victimes Ni bourreaux (in Combat, nov. 1946)

Traduzione di Ivana Cenci

(4 di 8 – La pubblicazione in Tf proseguirà, regolarmente e con continuità, ogni martedì)


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