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Marco Cipollini. L’arte dell’imitazione (XV): “Il giardino di Proserpina”, di Algernon Charles Swinburne
Algernon Charles Swinburne
Algernon Charles Swinburne 
03 Gennaio 2010
 

Nella nostra epoca in cui nulla fa più scandalo, in quanto il successo mediatico (monetario) avviene grazie all’esibizione scandalistica, tale che l’assuefazione comporta una dose via via maggiore di scandalosità, accennare a Swinburne come all’autore scandaloso dell’età vittoriana, rischia il ridicolo. La sua cultura letteraria fu immensa e approfondita – ecco il vero motivo di scandalo per un poeta odierno! – sia riguardo i contemporanei sia i classici europei, sia quelli greci e latini, che conobbe negli originali. Fu il poeta delle forti e irrisolte contrapposizioni (dolore-piacere, Eros-Thanatos, ovvero Venere e Proserpina, la bellezza e il male) elaborate con un linguaggio non superficialmente musicale, ma nascente dal profondo (amò Poe e Baudelaire), e in ciò fu precursore del Simbolismo.

   Forse il limite a una sua totale accettazione estetica, oggi, consiste nella sua esuberanza sinfonica. Ma in The Garden of Proserpine “egli è ben cosciente della simbologia affidata alle immagini, mentre il ritmo del verso si snoda con una modulazione severa, senza compiacimenti né sentimentalismo, con una purezza d’animo ritrovata che è il compenso della sua integrità di artista” (Biancamaria Rizzardi, Mursia 1990). Swinburne annotò che in tale carme intese esprimere “quel breve momento di pausa totale della passione e del pensiero in cui lo spirito, senza timore o desiderio di cose buone o empie, è affamato e assetato soltanto di un sonno perfetto”.

   L’autore, verace conoscitore dei classici, da sempre disperò di una loro traduzione moderna. Il medesimo senso d’impotenza prende chi vuol rendere non corsivamente in italiano, ovvero in una lingua assai più ortogonale e architettonica dell’inglese, così fluido e pastoso, questo carme sontuoso e severo. Quanto si è qui tentato è il frutto maturato lungo non pochi anni, come sempre cercando di ottemperare a una domanda illusoria: l’autore come avrebbe scritto questa poesia, oggi, nella nostra lingua? (m.c.)

  

 

Algernon Charles Swinburne (1837-1909)

 

The Garden of Proserpine

 

Here, where the world is quiet;

   Here, where all trouble seems

Dead winds’ and spent waves’ riot

   In doubtful dreams of dreams;

I watch the green field growing

For reaping folk and sowing,

For harvest-time and mowing,

   A sleepy world of streams.

I am tired of tears and laughter,

   And men that laugh and weep;

Of what may come hereafter

   For men that sow to reap:

I am weary of days and hours,

Blown buds of barren flowers,

Desires and dreams and powers

   And everything but sleep.

Here life has death for neighbour,

   And far from eye or ear

Wan waves and wet winds labour,

   Weak ships and spirits steer;

They drive adrift, and whither

They wot not who make thither;

   And no such things grow here.

No growth of moor or coppice,

   No heather-flower or vine,

But bloomless buds of poppies,

   Green grapes of Proserpine,

Pale beds of blowing rushes

Where no leaf blooms or blushes

Save this whereout she crushes

For dead men deadly wine.

Pale, without name or number,

   In fruitless fields of corn,

They bow themselves and slumber

   All night till light is born;

And like a soul belated,

In hell and heaven unmated,

By cloud and mist abated

   Comes out of darkness morn.

Though one were strong as seven,

   He too with death shall dwell,

Nor wake with wings in heaven,

   Nor weep for pains in hell;

Though one were fair as roses,

His beauty clouds and closes;

And well though love reposes,

   In the end it is not well.

Pale, beyond porch and portal,

   Crowned with calm leaves, she stands

Who gathers all things mortal

   With cold immortal hands;

Her languid lips are sweeter

Than love’s who fears to greet her

To men that mix and meet her

   From many times and lands.

She waits for each and other,

   She waits for all men born;

Forgets the earth her mother,

   The life of fruits and corn;

And spring and seed and swallow

Take wing for her and follow

Where summer song rings hollow

   And flowers are put to scorn.

There go the loves that wither,

   The old loves with wearier wings;

And all dead years draw thither,

   And all disastrous things;

Dead dreams of days forsaken,

Blind buds that snows have shaken,

Wild leaves that winds have taken,

   Red strays of ruined springs.

We are not sure of sorrow,

   And joy was never sure;

To-day will die to-morrow;

   Time stoops to no man’s lure;

And love, grown faint and fretful,

With lips but half regretful

Sighs, and with eyes forgetful

   Weeps that no loves endure.

From too much love of living,

   From hope and fear set free,

Whe thank with brief thanksgiving

   Whatever gods may be

That no life lives for ever;

That dead men rise up never;

That even the weariest river

   Winds somewhere safe to sea.

Then star nor sun shall waken,

   Nor any change of light:

Nor sound of waters shaken,

   Nor any sound or sight:

Nor wintry leaves nor vernal,

Nor days nor things diurnal;

Only the sleep eternal

   In an eternal night.

 

 

 

Il giardino di Proserpina

 

Qua, dove il mondo non è che languore,

   dove ogni affanno in una rissa affonda

di esausti venti ed ogni onda muore

   in sogno che in incerto sogno esonda,

io crescere guardo il verde dei campi

per chi seminando o mietendo stampi

qua le orme, senza che il sole avvampi,

   di correnti una plaga sonnibonda.

 

Sono stanco di lacrime e di risa,

   stanco di chi che sia in riso o in pianto,

come degli uomini, cui il fato ha arriso,

   che gettan seme per averne tanto.

Sono stanco dei giorni e delle ore,

di gemma in boccio o di sterile fiore,

di sogni e desideri e di vigore,

   di tutto a cui il letargo non fa manto.

 

Qua la vita ha la morte per amica,

   lungi da occhi e orecchi umido vento

insieme al flutto cereo si affatica,

   spiriti vanno in frale bastimento

alla deriva e ignorano la forza

che li spinge: ogni onda qua si smorza,

ogni cosa che cresce non fa scorza…

   Vanno dove non sanno, senza vento.

 

Qua cespuglio non cresce né brughiera,

   né la vigna né l’erica fiorisce,

ma Proserpina ha verdi vigne a schiera,

   il papavero in boccio si avvilisce,

coltre di giunchi flessuosa, grigia,

dove foglia non spunta e arrossa, stigia,

se non questa dalla quale ella pigia

   ai morti un morto vino, che sfinisce.

 

Pallidi, senza numero né nome,

   per i campi mai di spighe fecondi

vanno e tra loro chinano le chiome e

   si accasciano in sonno, finché non sgrondi

un albore, e com’è senza compagna

un’anima negl’inferi, ristagna

fra nubi e brume una luce terragna

   nella foschia, con raggi vagabondi.

 

Se di sette tu avessi anche il vigore,

   pur le soglie varcherai della morte,

né con ali ti desterai al chiarore

   dei cieli, né tormenti avrai per sorte;

anche se la bellezza hai di una rosa,

svanirà come nube sfarsi acquosa,

anche se un amore con te riposa,

   nessun bene alla fine resta forte.

 

Pallida, oltre il portico e il portale,

   d’inerti foglie incoronata, siede

colei che coglie ogni cosa mortale

   con fredde mani immortali, e non cede;

più soavi ha le labbra di languore

che non son quelle offerte per amore,

che la teme, per chi le rende onore

   e in tempi e in luoghi vari ebbe egli sede.

 

Ella attende chiunque e mai non serra

   la sua maestà a chi è nato, ch’ella attende;

la sua madre dimentica, la Terra,

   la spiga che si erge e il frutto che pende,

la rondine e il seme che a primavera

volano a lei, dove non è foriera

di canti mai l’estate e sempre è sera,

   dove, vi fosse, ogni fiore si arrende.

 

Là se ne vanno gli amori appassiti,

   quei vecchi amori con le ali pesanti,

là tutti gli anni che sono finiti,

   ogni cosa che il disastro ha davanti;

morti sogni di giorni abbandonati,

boccioli dalla neve castigati,

fogliami dai venti ai boschi strappati,

   di verdi fasti rossi stracci erranti.

 

Del dolore non siamo mai sicuri

   e sicuri nemmeno della gioia;

i dì presenti non saran futuri;

   delle umane lusinghe il tempo ha noia;

e l’amore, irritabile e ormai fiacco,

sospira senza rimpianti un distacco,

con occhi smemorati di ogni scacco

   piange, e si chiede perché presto muoia.

 

Da un amore eccessivo per la vita,

   da speranze e timori liberati,

con un rapido grazie dipartita

   prendiamo dagli Dei, noti o ignorati,

perché vita non c’è che sempre duri,

perché i morti non tornan perituri,

perché anche il fiume che di più perduri

   scioglie al mare i meandri suoi spossati.

 

Allora più né stella né più aurora

   ci desterà, né di luce il cangiare,

né il rumorio d’acque croscianti, allora,

   né altro mai da vedere o da ascoltare;

foglie non più a primavera o d’inverno,

né di giorni e di notti il gioco alterno;

solo un sopore eterno, in un eterno

   non luogo, straniero, crepuscolare.

 

 

www.webalice.it/marcocipollini

 


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