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Paolo Diodati. Considerazioni finali sull’esperimento voluto da Lucio Battisti
11 Gennaio 2010
   

Il 13 agosto dell’anno scorso, uscì su Tellusfolio, un articolo dal titolo “Risultato dell’esperimento voluto da Lucio Battisti”. Si alludeva alle nuove vie espressive (linguistiche e musicali) fortissimamente inseguite e tentate dal nostro più grande compositore di musica leggera. Battisti, che con Mogol aveva cantato tutto o quasi, il cantabile dei sentimenti umani, impose a Pasquale Panella la stesura di testi “non banali”, anzi, disse e fece scrivere, parole sue, “testi in cui non si capisse nulla”, anche se pochi anni prima aveva detto “troppo facile rifugiarsi nel non senso…”. Sull’esperimento, concretizzato in 40 canzoni e poi troncato nel 1994 dagli stessi autori, sono stati scritti fiumi di stroncature, ma anche di apprezzamenti così iperbolici da far giudicare di “stile massaia” quasi tutta la precedente produzione mogoliana. Ammiratori e denigratori di Panella e dell’ultimo Battisti, si insultarono, a partire dal 1986, con la stessa passione degli sportivi e dei politici.

Dopo 24 anni dall’inizio dell’esperimento “rivoluzionario” (Don Giovanni, 1986), si sono attenuati i giudizi nelle lodi (è una pietra miliare) o nelle stroncature (è la fine di Battisti)?

I tre articoli pubblicati sul tema hanno coinvolto un numero ragguardevole di lettori.

In uno, Gioco di fine estate, proponevo provocatoriamente, considerata la peculiarità di TF nello spazio che concede alle poesie e prose poetiche, d’inviare testi alternativi, tanto facile, aggiungevo, era far meglio di Panella…

Tolta la scrittrice Patrizia Garofalo, nessuno dei docenti di mia conoscenza, si è pronunciato, neanche dietro sollecitazione. In compenso si sono scatenati alcuni membri dei Battisti fan Club i cui insulti nei miei confronti sono ancora leggibili in alcuni siti.

Questi fan hanno vivacizzato il confronto ed è un peccato che per vari motivi si sia interrotto.

Ringrazio ora tutti gl’intervenuti. In particolare la decina di curiosi e affezionati che mi ha scritto ripetutamente, chiedendomi di trarre almeno le conclusioni.

Eccole:

La lettura dei commenti arrivati ha evidenziato:

 

1. l’impotenza degli ammiratori dei testi considerati a dare un’interpretazione che fosse condivisa. Le interpretazione degli ammiratori, cioè, risultano diverse tra loro; questa diversità viene ritenuta un pregio. Come risulta già dai primi commenti scritti all’uscita degli album, le diverse sensazioni che un testo dà nel tempo ad una stesso ascoltatore, è ritenuta fonte di fascino e genialità. Apprezzamento non condiviso dai denigratori che vedono in queste affermazioni una conferma della fuga dalla realtà e dall’obiettività della frase significativa. Tentativi di interpretazione addirittura globale della produzione, tipo riferimenti alla filosofia hegeliana, sono risultati inconsistenti e fantasiosi, come era prevedibile.

 

2. Alcuni lettori hanno fatto notare che se il tentativo panelliano fosse stato felice e se fosse piaciuto, avrebbe fatto proseliti. Ottima osservazione che dimostra inconfutabilmente che solo la grandezza del fenomeno Battisti, musicista, arrangiatore e interprete, ha reso possibile far durare l’esperimento per cinque lp. Non ci fosse stato l’amore incondizionato di tanti per Battisti, l’esperimento sarebbe durato quanto l’orangutese Prisencolinensinanciusol di Adriano Celentano (1972), in cui i pochi “sprazzi di luce” sono costituiti dalla ripetizione di all right, scritto, ovviamente, ol rait, svalutation, scritto svalutescion, e da altri pochi suoni tipo men, bebi.

Celentano, furbo ma con creatività pressoché nulla rispetto a Battisti, capì che se avesse insistito anche con un solo altro pezzo simile, avrebbe tonfato. Panella-Battisti impiegarono quasi dieci anni, prima di arrendersi all’evidenza della monotonia delle invenzioni letterarie.

Panella, dopo aver pontificato che per scrivere canzoni (tradizionali, aggiungo, per chiarezza) bisogna essere stupidi, chiuso con Battisti s’è messo a scrivere “da stupido”, presentando un pezzo a Sanremo, nientemeno che con Mino Reitano…

Ma meno male che l’esperimento con Battisti sia restato un tentativo sterile. Se avesse attecchito e fosse diventato di gran moda, forse avrebbe contribuito a peggiorare le già disperate condizioni della nostra lingua, sempre più soffocata dall’inglese. Anzi, soffocata da quel magma in continua trasformazione pluridirezionale per il quale il poeta e umorista americano Ogden Nash, nei primi anni ’60 scrisse: “Farewell, farewell to my beloved language / Once English, now a vile orangutanguage” (da Laments for a dying language).

 

3. Non siamo stati in grado di trovare in rete la testimonianza di uno scambio di opinioni così ampio, come quello che ha fatto seguito alla pubblicazione dei tre articoli sul Gioco. Accuse, insulti tra ammiratori e detrattori, ce ne sono stati in passato. Ma non ci è stato segnalato alcun tentativo di “dialogo” per arrivare a giudizi condivisi. Abbiamo parlato di “sprazzi di luce” per quei versi comprensibili e di cui alcuni, anche belli. Ma in definitiva, questo gioco fornisce una riprova, per gli studiosi dei requisiti che deve avere la canzone che piace, che il nuovo nei testi, per piacere, deve avere una percentuale non trascurabile di comprensibilità.



Considerazioni personali su Battisti, il Mozart, o il Rossini, della musica leggera.


In una calda serata di maggio di tanti anni fa, nei giardini della Casa dello studente di Perugia, e sotto una finestra “che luceva”, una chitarra e una voce maschile, resa volutamente un po’ roca, diffondevano l’incredula disperazione di un innamorato che non voleva rassegnarsi all’evidenza. “Ti stai sbagliando, non può essere lei… non è Francesca”, insisteva testardamente dopo ogni particolare che indicava che fosse proprio lei. Il pathos di quella musica mi ricordava vagamente il Sergio Endrigo di “Se le cose stanno così…”. E la ragazza a cui era dedicata quella malinconica serenata, faceva tornare in mente il dolore di Voce ’e notte. Il modo struggente, ossessivo, di ripetere “Non è Francesca…” e l’interminabile, insolita, coda con cui la canzone va sfumando, mi colpirono. Fu il mio primo incontro, un vero colpo di fulmine, con la musica di Lucio Battisti. Quella coda, che sembra rimarcare la vicinanza degli orchestrali al cantante che non ha più parole e tanti altri pezzi successivi, mi hanno fatto pensare che tanta creatività a getto continuo, avrebbe spinto Battisti a una svolta artistica inevitabile. Con la sua vena felice, fresca e fertilissima, aveva spinto Mogol a dare tutto il miglior vino delle sue migliori, numerose e capienti botti. Lo stava prosciugando. Aveva esaurito o spento le ambizioni poetiche di Velezia, e forse anche sue, dopo un solo lp, in cui alcuni, troppi testi, hanno difetti di forma e di originalità. Avrebbe bruciato qualsiasi altro paroliere o poeta che fosse. Troppo prolifico, esuberante, estroso e troppo esigente, perché qualcuno, pur bravo, potesse star dietro con parole e concetti appropriati e originali, alle sue musiche originali e a getto continuo.

Il suo futuro non poteva essere che il musical o forme musicali d’avanguardia.

Il destino è stato doppiamente crudele con lui. Un commiato segnato da un tentativo di velleitaria rivoluzione stilistica nei testi. Una rabbia indomabile verso il ripetitivo, il già fatto, stroncata solo dalla sua dissoluzione fisica, alla vigilia di un’altra inevitabile svolta artistica. Che la rivoluzione tentata con Panella sia stata velleitaria, con pochi spunti apprezzabili e troppe invenzioni fiacche e monotonamente ripetitive, non lo dimostrano solo il crollo delle posizioni nelle classifiche dei dischi più venduti e la quasi totalità di giudizi drasticamente negativi dei critici. Lo dimostra, soprattutto, l’irrilevante seguito che ha avuto l’esempio di tale presunta rivoluzione. I difensori di Panella non sono in grado di segnalare un solo brano “stile Panella”, finita l’esperienza del Maestro, che abbia avuto successo. È questo il giudizio sulla gradevolezza delle invenzioni di Panella, delle sue possibilità di sviluppo e d’emulazione. Tutto ciò è la condanna, senza appello, della bontà dell’esperimento.


E tutto ciò era noto agli esperti e ancora di più agli studiosi che hanno pubblicato i risultati del loro lavoro “alla ricerca della formula per scrivere musiche e testi di successo” (Singh, Teoria dell’informazione. Linguaggio e Cibernetica, Ed. Mondatori).

Il brano che piace e che quindi ha successo deve contenere un giusto equilibrio tra il nuovo e il già noto. Il troppo nuovo all’inizio, statisticamente, non piace. Se poi ha sostanza, col tempo si impone e fa tendenza. Con Panella l’impressione negativa iniziale e il conseguente rigetto da parte della quasi totalità del pubblico, non sono stati seguiti da un ripensamento. E, quindi, quel tipo astruso di nuovo, non ha fatto tendenza, ma ha costretto lo stesso inventore a gettare la spugna.

Questo, il primo Battisti post-Mogol lo sapeva talmente bene da scrivere in Registrazione (da E Già, commiato dal mondo difficile del comprensibile)


questo è il momento più eccitante della creazione
i musicisti sono pronti i microfoni in posizione
una voce il nastro gira una luce
registrazione
stai per entrare in un altro mondo
presa diretta con quello che hai dentro
fra poco si vedrà che cosa sai fare
il tuo talento e le tue qualità
la musica come l'amore è un divertimento
quando si complica invece diventa un tormento
ed al piacere allora subentra la noia e davvero la noia;
si affaccia la fatica del tuo ruolo
da tanto in alto ch'eri ti senti al suolo
senza intellettualismi dagli sfogo
al tuo talento alle tue qualità.


La forma lascia a desiderare (molto). Ma il concetto è chiarissimo: il pubblico giudicherà che cosa sai fare, il tuo talento e le tue qualità. Chi altri, se non il pubblico? E se il pubblico, al 90% boccia i tuoi testi, cosa si può concludere?

Solo la disperazione, l’impotenza nel non poter trovare chi superasse la “parola della sua anima (Mogol)”, lo spinsero verso una specie di follia.


Dopo aver interpretato quasi sempre ai massimi livelli gli amori, le rabbie, le gelosie, le delusioni, i tradimenti, le speranze, con toni ora drammatici, ora leggeri, ironici e divertenti, il commiato definitivo di Lucio Battisti è stato alla Ionesco de Le sedie. Almeno per me, che non sono in grado di capire la quasi totalità degli ultimi 40 testi scelti. Quando, dovendo dire in pubblico “il nuovo” che a parole lui non era in grado di esprimere, mettendo in presa diretta il suo mondo interno, col mondo esterno, chiamò a farlo il Grande Oratore di Ionesco, ovvero Panella. E questo sconcerta le aspettative di tutti, emettendo suoni inarticolati e scrivendo alla lavagna simboli incomprensibili per tutti.


A sipario calato, si può ben dire che il destino ci ha vietato di avere, finalmente, il nostro George Gershwin. Perché Battisti non si sarebbe più accontentato di scrivere esclusivamente canzoni. Chiuso con Mogol, obbligato a chiudere con Panella, la vocazione alla musica più complessa e le capacità creative che gli permettevano di ripetersi il meno possibile, lo avrebbero inevitabilmente spinto sulla strada aperta da George Gershwin.


Paolo Diodati


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