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Gocce di memoria: l’opera vernacolare di Giulio Grimaldi 
di Stefano Bardi
11 Novembre 2016
 

Per molti il dialetto è qualcosa di inutile e insignificante, anzi peggio ancora non è neanche considerato come un linguaggio “nobile” e “aristocratico”, ma bensì solo ed unicamente come una lingua di supporto, alla lingua ufficiale italiana. Eppure fin dall'Alba dei Tempi fino ai giorni nostri, sono state e continuano ad essere scritte poesie, in dialetto o vernacolo che a dir si voglia. In particolar modo questo discorso riguarda le Marche, le quali hanno dato i natali al grandissimo poeta e scrittore Giulio Grimaldi (Fano, 8 gennaio 1873 – Marina di Pisa, 2 agosto 1910), che del vernacolo è stato maestro, alla pari del grande Franco Scataglini, che dell'arcaico vernacolo anconetano è stato il produttore ed il massimo esponente poetico.

Uno scrittore ribelle e dal destino infausto fu il Grimaldi, come dimostra la sua dipartita avvenuta per annegamento, innanzi alla moglie e ai quattro figli, il 2 agosto 1910. Fin dalla sua giovane età, il nostro scrittore e poeta, ebbe una passione per la lingua fanese e, in particolar modo, per il vernacolo dei pescatori e dei marinai, da lui studiati e investigati nelle osterie, nei mercati ittici agli ingrossi, e nei porti. Vernacolo inoltre, che è alla base della sua opera in sonetti, dal titolo “Brod e àcin (Mosto e vinaccioli)”. Opera in cui il vernacolo, non umanizza le cose da lui toccate, ma bensì le fa trasudare con una furba e scaltra passionalità linguistica. Come detto poco fa, questa opera si basa sulla vita dei pescatori e dei marinai fanesi, ma anche le donne sono presenti nell’opera, attraverso le loro parole enigmatiche e passionali, invidiose e irose, carnevalesche ed educativo-pedagogiche. Oltre ai pescatori e alle donne, questa raccolta, declama e liricizza personaggi folcloristici fanesi; e tutto quell’universo costituito dalla povera gente, che non vuole adattarsi, nel modo più assoluto, alla Modernità. In parole più semplici, questa raccolta vuole essere un omaggio al proletariato fanese con il suo linguaggio, il suo carattere, i suoi costumi, le sue speranze, le sue fedi, e tanto altro ancora. Un vernacolo, che però non si limita ad essere utilizzato solo ed unicamente come uno strumento linguistico, ma anche come uno strumento in grado di far riscoprire al Grimaldi un universo a lui vicino, fraterno, familiare, giornaliero, e a volte pure intimo. Inoltre per Giulio Grimaldi il vernacolo è la vulgata della Madre che parla all'amore e all'anima; e la resurrezione della parola, a discapito delle ombre e delle immagini convenzionali, usate dalla lingua italiana. In parole più semplici, per il nostro scrittore e poeta fanese, scrivere e comporre in dialetto vuol dire creare con la totale corporalità. Opera costruita dall’inizio alla fine, tramite l’utilizzo dei sonetti, i quali a loro volta erano costruiti e configurati prendendo ispirazione dai dialoghi, poiché secondo il Grimaldi i colloqui sono in grado di riprodurre la quotidianità con le sue melodie. Inoltre, questi sonetti sono stati scritti usando il vernacolo, perché fu concepito dall’autore come lo strumento della trasmissione ai posteri della cultura orale, dall’antichità ai giorni nostri.

Avendo parlato del vernacolo fanese è obbligatorio spendere due parole storico-antropologiche sulla lingua popolare di Fano. Questo dialetto è nato e si sviluppato in tre posti ben precisi e topograficamente ancora oggi individuabili sulle cartine locali. Il primo posto è Via Nazario Sauro, ovvero, il borgo marinaro per eccellenza, in cui trovano spazio i portulòtt, con la loro lingua caratterizzata da lessemi volgari e sconci. Il secondo luogo è costituto da Porta Giulia, in cui i lessemi usati sono legati al duro lavoro del mare e ai riti funebri dei pescatori, declamati con canti mistico-allegorici. Il terzo e ultimo luogo topografico è il mercato ittico di Piazza A. Costa. Un luogo dove ancora oggi, si possono assistere a delle vere e proprie “scene teatrali”, durante la vendita del pesce, proprio come si può vedere al Mercato Centrale di Napoli. Ecco ora abbiamo detto tutto sul vernacolo fanese e possiamo passare, al Grimaldi prosatore.

 

Per quello che riguarda il romanziere, il nostro autore fanese ci lascia la stupenda opera Pescatori dell’Adriatico, che può essere considerato come un’investigazione sulla vita, i costumi, i riti, le fedi, e le usanze dei pescatori fanesi; e, inoltre, può essere letto come la brutta copia della sua opera di maggiore successo uscita nel 1908. In entrambi i romanzi la lingua italiana è costruita attraverso le visite dirette del Grimaldi nei luoghi marinareschi e attraverso lo studio di dizionari e manuali marittimi e ittici.

Nel 1908 esce per l'appunto, il suo maggior successo letterario, ovvero il romanzo Maria Risorta. Romanzo marinaresco. Narrazione tormentata e violenta di un adulterio, vissuto per l’appunto dentro la comunità dei pescatori fanesi, la quale comunica con la sua arcaica e “proibita” lingua. Questa comunità ittica è costituita da infausti, arcaici, e aspri destini socio-umani. Quest’opera può essere letta in due modi, che sono il romanzo da una parte e uno studio antropologico dall’altro, il quale per l’appunto si concentra sullo studio di uno strato sociale – i pescatori fanesi – che fino a quel momento non era mai stato fatto e pubblicato. Il romanzo grimaldiano ci fa capire che le sofferenze e le pene psico-fisiche fanno parte della povertà, intesa quest'ultima come la miseria spirituale, “carnale”, e sociale. Tutti i personaggi del romanzo sono sottomessi e schiavizzati alla realtà; e infastiditi, minacciati dalle bufere esistenziali. In poche parole, sono personaggi privi della luce intellettuale. Concludo sull'opera grimaldiana tracciando una veloce lettura sul tema della dipartita, vista dal nostro autore come la sorella della vita e per questo motivo, spolpata della sua sacralità.

 

Accanto al Grimaldi poeta e romanziere, dobbiamo ricordarci la sua esperienza, dal 1901 al 1910, come direttore della rivista Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti trasformatasi poi in Le Marche. Rivista che per l'appunto diresse fino al tragico 1910 (anno della sua morte), ma che fu continuata ad essere stampata fino al suo ultimo numero, che apparve nel 1912. Rivista dall'impianto storiografico-culturale, sulle Marche. In queste pagine il Grimaldi si concentra sugli aspetti linguistici marchigiani, soffermandosi in particolar modo sullo studio e la pubblicazione di arcaici e antiquati testi filologici. Opera rivoluzionaria fu, poiché, per la prima volta fino ad allora, ci si iniziò ad occupare di tematiche considerate “proibite” e “demoniache”, come per esempio le materie storico-economiche e storico-giuridiche. Base principale della rivista grimaldiana fu l'indagine dei natali sociali dei Comuni marchigiani, delle loro mutazioni strutturali, e i legami mezzadri fra i vari Comuni. In parole più semplici, i saggi presenti in codesta rivista volevano tracciare le origini e le sembianze dei Comuni marchigiani medievali; e volevano illustrare la partecipazione attiva dei loro cittadini, nell'esistenza sociale. In conclusione, le Marche furono concepite da Giulio Grimaldi come un problema storico pieno di guerre, di battaglie, di angosce, e di idee intellettuali dissimili fra di loro.

Dopo tutte questa parole, una domanda conclusiva sorge spontanea, ovvero che cosa ne pensano le nuove generazioni fanesi del loro illustre cittadino e del loro vernacolo? Niente purtroppo, poiché queste nuove generazioni post-Facebook e post-Twitter, sono sempre ed unicamente impegnate nei bar fra alcool e fumo, nel parlare di donne, avventure sessuali, e di calcio. In particolar modo poi, queste nuove leve giovanili, sono del tutto amene sul loro importante e arcaico vernacolo fanese, poiché questi ragazzi e ragazze non sanno creare e divulgare la loro folclorità. Ragazzi e ragazze ai quali voglio dedicare la stupenda poesia fanese Tel curisfunari, che in italiano è tradotta come Nel confessionale; e che il confessionale simboleggi per queste nuovo generazioni, la loro interiorità e spiritualità, in cui trovare e scoprire, i veri e unici valori esistenziali.

 

 

Tel curifsunari

 

E la pietà, figliola? – È gita ma...;
giust, cla mulica d' messa, aesì. a stroson...;
svujata in chiesa, sensa divusion...
Saria mej ch'en usassa, el carneval!
Pu, sor curat... m'invergogn d' cunfsal!
– Robba amorosa? Aah... aah – No, prò...
Al viglion di asoc sa tuta cla gran cuinfusion...
c' sin fermati a discura, su ple scal
– Ebbè? – En c'era nisciun... era mez scur...;
tra na parola e n'antra pasiunata...
– Be'? – c' sin basciati, streti cost el mur.
– E poi? – Gnent àlter... – Bada un'altra volta...;
più attenta, figlia mia! più riguardata...

Atto di contrizione!... Sei assolta.

 

(da Brod e àcin e altre poesie)


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