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Yoani Sánchez. Il sacco dei non conformi 
Dalla rivista clandestina "VOCES", n. 2 - settembre 2010
27 Settembre 2010
 

Un’immagine edulcorata mostra Cuba come un paese dove ha trionfato la giustizia sociale nonostante un nemico potente come l’imperialismo nordamericano. Per oltre mezzo secolo, è stata alimentata l’illusione di un popolo unito attorno a un ideale, coraggiosamente impegnato per raggiungere l’utopia sotto la saggia direzione dei suoi capi. La propaganda politica e turistica, presentando una falsa immagine della nostra realtà, hanno diffuso la voce che gli oppositori della causa rivoluzionaria siano mercenari senza ideologia al servizio di padroni stranieri.

Viene da chiedersi come sia possibile che milioni di persone che vivono su questo pianeta possano credere che l’unanimità si sia insediata - in maniera naturale e volontaria - in un’isola di centoundicimila chilometri quadrati. Come possano credere alla favola di una nazione ideologicamente monocromatica e di un Partito che tutti sostengono perché rappresenta le istanze di ogni abitante.

Nell’anno 1959, quando trionfò l’insurrezione contro il dittatore Fulgencio Batista, i barbudos giunti al potere misero nel sacco dei loro nemici coloro che definirono “sbirri e torturatori della tirannia”.

Durante gli anni Sessanta, come conseguenza delle leggi rivoluzionarie che finirono per confiscare tutte le proprietà produttive e lucrative, la definizione iniziale si ampliò e furono aggiunti al novero dei nemici “i proprietari terrieri e gli sfruttatori dei poveri”, “coloro che vogliono ritornare al mortificante passato capitalista” e altre categorie identificate con lo stesso taglio classista.

Arrivati gli anni Ottanta caddero nel deposito dei contrari al sistema anche “coloro che non sono disposti a sacrificarsi per un futuro radioso” e “le scorie”, un’invenzione linguistica che pretendeva di definire un sottoprodotto della fornace dove si forgiava non solo la società socialista ma anche l’uomo nuovo, che avrebbe avuto il dovere di costruirla e un giorno anche il piacere di beneficiarne.

Le etichette ideologiche non rimarcavano la differenza tra chi si era opposto subito alle promesse di trasformazione sociale e chi ci aveva creduto ma aveva visto frustrate le sue aspirazioni di fronte alle promesse incompiute. Perché ogni promessa ha una scadenza, soprattutto se è politica e quando scadono le proroghe proclamate nei discorsi, termina la pazienza e vengono fuori posizioni difficili da etichettare per gli eterni classificatori di cittadini. Per questo motivo da diversi decenni a Cuba alcune persone sostengono che le cose dovrebbero essere fatte in un altro modo e concludono che un’intera nazione è stata spinta alla realizzazione di una missione impossibile, ci sono molti cittadini che vorrebbero introdurre alcune riforme e altri che pretenderebbero cambiare tutto.  

Ma il sacco è ancora lì con la sua insaziabile bocca aperta e la stessa mano pronta a cacciare dentro chi si azzarda a confrontarsi con la sola possibile “verità” monopolizzata dal potere. Non importa se sia socialdemocratico o liberale, democristiano o ecologista, o semplicemente un non conforme indipendente; se non è d’accordo con i precetti del solo partito consentito - il comunista -, viene considerato un oppositore, un mercenario, un traditore della patria e alla fine viene classificato come un agente al soldo dell’imperialismo.  

Molte persone continuano a guardare con ostinazione l’immagine edulcorata che esibisce un processo sociale capace di fare giustizia e cercano di giustificare l’intolleranza che lo accompagna a partire dai suoi risultati - ormai piuttosto deteriorati - nei campi della salute e dell’educazione. Queste persone non possono capire che i modelli usati per caratterizzare l’immagine trionfalista del sistema cubano, sono ben diversi quando scendono dal piedistallo dove sono stati messi. Paziente ospedalizzato e alunno di una scuola non sono sinonimi di cittadini di una repubblica. Quando uomini e donne in carne e ossa - con propri sogni e aspirazioni - si trovano fuori dalla “zona dei benefici della rivoluzione”, scoprono di non possedere uno spazio privato per formare una famiglia, né un salario corrispondente alla quantità di lavoro, né un progetto di benessere lecito e onesto. Quando riflettono su quali siano le strade disponibili per modificare la loro situazione, comprendono che resta solo la scelta di emigrare o di delinquere. Se pensano a come poter modificare la situazione del paese, pieni di paura si troveranno di fronte il minaccioso dito accusatore di uno Stato onnipresente, l’insulto che scredita, l’intolleranza rivoluzionaria che non ammette critiche o proposte. Si renderanno conto di essere finiti nel sacco dei dissidenti, nel quale per il momento troveranno soltanto stigmatizzazione, esilio e carcere.

 

Yoani Sánchez

(dalla rivista clandestina VOCES, n. 2 del settembre 2010)

Traduzione di Gordiano Lupi


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