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Alessandra Borsetti Venier. La storia degli IMI - Internati Militari Italiani (prima parte)
Natale Borsetti,
Natale Borsetti, 'Lager di Cestochova', 1943 
24 Gennaio 2011
 

La storia ancora poco nota degli IMI - Internati Militari Italiani (Italienische Militär-Internierten come erano definiti dalle autorità tedesche) ebbe inizio l’8 settembre 1943, quando Radio Casablanca, emittente alleata, diffuse la notizia dell’armistizio firmato dal generale Giuseppe Castellano a Cassibile 5 giorni prima. Subito si riunì il Consiglio della Corona, quindi il capo del Governo Pietro Badoglio, alle ore 19:45 comunicò, nella sede dell’EIAR, che l’Italia era uscita dalla guerra. L’armistizio era stato preparato con tale maniaca segretezza, da ingannare tutti, tranne i tedeschi, la cui presenza in Italia dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio, era quadruplicata.

Alle 20:30 di quello stesso 8 settembre, dal comando della Wehrmacht a Berlino partiva un messaggio, diretto a tutti i comandi periferici dell’esercito tedesco, con un solo vocabolo: “Achse”, il nome in codice della progettata occupazione dell’Italia e del disarmo dell’intero esercito.

Giocando sullo spaesamento in cui i soldati italiani, privi di ordini, si erano trovati (10 divisioni in patria, 5 in Francia e Corsica, 31 nei Balcani); giocando sulla buona fede e agendo con il tradimento e la falsità, i tedeschi disarmarono e catturarono oltre la metà dei militari italiani, su un totale approssimativo di circa 2 milioni effettivamente sotto le armi.

In genere riuscirono a catturarli promettendo il rimpatrio.

Nei documenti tedeschi, il proposito di catturare tutti i militari italiani in caso di defezione si manifesta almeno fin dal 28 luglio 1943. Il proposito è di farne dei “prigionieri di guerra”.

Il 20 settembre è lo stesso Hitler a volere che la condizione giuridica degli italiani fosse ridotta da “prigioniero” a “internato”: questo implicava la sottomissione dei deportati a un regime giuridico non convenzionale secondo gli accordi di Ginevra del 1929, cosicché gli “internati” venivano a trovarsi in un limbo giuridico legato all'arbitrio totale di Berlino. Il 20 novembre 1943, infatti, il responsabile tedesco respinse le richieste della Croce Rossa Internazionale di poter assistere gli internati perché essi “non erano considerati prigionieri di guerra”.

Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei lager del Terzo Reich vennero deportati circa 700.000 militari italiani che rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi. 

Dopo la creazione della Repubblica Sociale Italiana, gli internati che non prestarono giuramento alla RSI, furono tenuti dalle autorità naziste in campi di concentramento “punitivi”, oppure obbligati al lavoro coatto nell’industria bellica (35,6%), nell’industria pesante (7,1%), nell’industria mineraria (28,5%), nell’edilizia (5,9%) e nel settore alimentare (14,3%).

Ovviamente le autorità del Terzo Reich vedevano nella cattura di centinaia di migliaia di italiani una preziosa risorsa di manodopera, sfruttabile a piacere. Anche per questo motivo ostacolarono ogni tentativo da parte della Repubblica Sociale di riportare in Italia grossi contingenti di internati.

 

Alessandra Borsetti Venier

 

(1 – segue)


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