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Rosario Amico Roxas. Sarà l’ultimo 1° maggio?
01 Maggio 2009
 

Appare paradossale che nel mondo occidentale, dominato dal liberismo capitalista e dalla reinterpretazione del mercato, si festeggi il 1° maggio come festa del lavoro.

Paradossale perché il capitalismo liberista dell’Occidente rappresenta la negazione dei valori del lavoro, operando, tendenzialmente, per il suo sfruttamento, negando la dignità che al lavoro spetta e che per secoli gli è stato riconosciuto. A Napoli, il presidente del consiglio ha auspicato di cambiare il nome alla festa del primo maggio, trasformandola in festa della speranza; come dire: “Lavoro..? Aspetta e spera!!”

L’affermarsi dei principi economici del liberalismo (da non confondere con il rampante liberismo), pur non negando totalmente dignità al lavoro, volle considerare principi fondamentali il diritto alla proprietà e al libero mercato, emendandoli dall’essere cinici espedienti dell’individualismo.

Il diritto alla proprietà, considerato un diritto naturale, spostò la sua natura nell’accaparramento indiscriminato, sostenuto dalla esaltazione del libero mercato, senza prendere in considerazione le conseguenze che ciò avrebbe determinato: ineguaglianza, disoccupazione, ingiustizia sociale, che avrebbero, in breve tempo, generato la divisione in classi (ricche e povere) e i tentativi, non adeguatamente programmati nel medio e lungo termine, della lotta di classe.

Le teorie liberali promossero il progresso, unitamente all’arricchimento riservato ai proprietari dei mezzi di produzione, ma negarono lo sviluppo dell’uomo, menomato anche dalla industrializzazione che divenne automazione, per cui veniva sempre meno l’esigenza del lavoro dell’uomo. L’informatica fornì i metodi per inferire il colpo decisivo, con la promozione dell’offerta, senza avere prima programmato una corretta evoluzione della domanda.

Precedentemente al dilagare dell’informatizzazione, si produceva ciò che il mercato e la domanda chiedevano, senza andare oltre all’indispensabile e al necessario; la qualità della vita seguiva per piccoli passi l’adeguamento paritario, pur se differenziato nella quantità tra le classi diventate contrapposte.

La classe opulenta riusciva a consumare una maggior quantità di bene, mentre la classe più debole conteneva i consumi nell’alveo del necessario.

L’avvento dell’informatica promosse la qualità che si sostituì alla quantità, producendo beni privi di domanda e imponendoli con una massiccia formula di comunicazione di massa.

L’esempio dei prodotti “firmati” conferma questa anomalia del mercato, che pure domina la logica dei consumi, diventando irrazionale consumismo.

Un medesimo prodotto, magari realizzato dalle medesime persone, con identica materia prima, si ritrova sul mercato a prezzi assurdamente differenti se posti l’uno sotto il dominio di una “firma” più o meno illustre, ma estranea alla qualità del prodotto, l’altro anonimo ma ad un prezzo 10 volte inferiore al precedente; il potere politico, che difende questo consumismo ingiustificabile, persegue il prodotto a minor prezzo, identificandolo come “prodotto taroccato”, mentre il vero taroccamento avviene nel medesimo prodotto ad alto prezzo che esige un enorme valore aggiunto, pur non “aggiungendo” assolutamente nulla, se non una targhetta con un marchio.

Al centro dell’economia si è posto, ed è stato accettato, l’imprenditore, spesso un “capitalista senza capitali”, che è stato agevolato in nome del libero mercato, del controllo statale fittizio, del falso in bilancio depenalizzate, dell’evasione fiscale tollerata se non suggerita.

Il concetto portante avrebbe voluto essere quello di favorire l’imprenditoria privata, coniugata con l’arricchimento di ogni singolo imprenditore, il quale avrebbe dovuto, nei progetti del potere che assisteva impotente e impreparato, generare benessere anche all’esterno del proprio “giardinetto”

Con l’accumulo di ricchezza l’imprenditore avrebbe dovuto creare nuovi posti di lavoro, un circuito di denaro e benessere dilatato, pur in assenza di un dilatato circuito del lavoro.

Posto nella condizione di presentarsi come il momento iniziale della catena economica del mercato, della domanda e della spesa, l’imprenditore valuta il proprio capitale come il solo valore agente della sua impresa; esige che quel “suo” capitale” abbia un ritmo di rendimento costante e, magari, crescente, specialmente quando i mezzi di produzione sono stati coperti dei costi iniziali, e il rendimento dovrebbe aumentare mancando l’ammortamento delle spese.

È questo uno dei motivi per cui l’imprenditore è molto restio a seguire da vicino lo stato dei suoi mezzi di produzione, perché il suo interesse è il rendimento economico che tali mezzi producono; da qui l’aumento esponenziale degli infortuni sul lavoro e le “morti bianche”, così chiamate per esorcizzare, con il candore del nome, la brutalità del vero che descrive una alterazione dei rapporti con il lavoro: lavorare per vivere, diventa lavorare per morire!

L’uso dei mezzi di produzione causa un deterioramento irreversibile, oltre a rendere obsoleti quegli stessi mezzi, per cui l’utile azienda cala e il capitale non produce valorizzazione, richiedendo, piuttosto ulteriori e nuove spese per mettere in sicurezza quei mezzi di produzione.

A questo punto l’imprenditore liberista, che ha usufruito di tutti i privilegi riservatigli dal potere, astenendosi dall’effettuare nuove spese per la sicurezza, preferisce lasciare inutilizzati quei “valori d’uso” che non sono più in gradi di produrre utili. Il processo produttivo si scinde in “forma materiale” e “forma sociale”, dove quest’ultima viene sacrificata alla legge del massimo utile con il minimo costo. Il materiale d’uso, materialmente disponibile, perde il riconoscimento sociale di “risorsa”, visto che il suo impiego non porta all’affermazione ulteriore dei rapporti sociali dominanti, che dividono il capitalista dal prestatore d’opera; e si tratta di una divisione etica che diventa a-morale.

Così è amorale che l’attuale presidente del consiglio, fautore e sfruttatore in prima persona della logica del mercato, anteposta alla logica del lavoro, si permetta di partecipare alla “Festa del Lavoro”, perché ne lede la sacralità, specialmente quando non ne riconosce la valenza morale e vuole cambiarla in “festa della speranza”.

 

Rosario Amico Roxas


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