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Erveda Sansi. Noblesse 
Un racconto per bambini
23 Agosto 2008
 

Era una calda giornata di primavera, il sole invitava al gioco. Brigitte e io attraversammo il corridoio inondandolo di risa, attente però a non essere acciuffate da qualcuno dei grandi. Brigitte scomparve sul retro. Io invece come sempre trasformai la porta in una sorta di altalena, aggrappandomi con le mani alla maniglia e appoggiando un piede sullo zoccolino della base, mentre mi spingevo con l'altro. Dopo un salto sarei scivolata fino alla porta sul retro e appendendomi alla maniglia avrei superato con un balzo i gradini per atterrare sul selciato. Questa volta però interruppi la scivolata perché con la coda dell'occhio percepii qualcosa di insolito. Mi costrinsi a girarmi e ad avvicinarmi al muro. Sentii un pugno nello stomaco. Continuai a fissare stupidamente la coda di cavallo fino a quando percepii da lontano la voce di Brigitte.

Muoviti, siamo in ritardo, – gridò impaziente. Mi riscossi e le trotterellai dietro.

Eravamo state invitate dalla sorella di Brigitte a unirci alle bambine più grandi del vicinato, nonostante avessimo solo sei anni. Stavano già giocando e al nostro avvicinarci si interruppero. Ci squadrarono e ci fu tra loro un breve conciliabolo con bisbigli e segnali d'intesa.

Vai via, sei una cengghi,* una zingara,* non vogliamo giocare con una come te, – mi disse con disprezzo una delle più grandi, avvicinandosi con fare minaccioso.

In un attimo si alzò un turbinio di voci, stordendomi. Non riuscivo a staccare i piedi dal suolo a cui erano rimasti incollati per l'incredulità e lo sbigottimento. Inutilmente cercai con gli occhi quelli di Brigitte che stava a testa bassa e si era spostata vicino a sua sorella. Mi girai muovendo i passi come un automa. Non riuscivo a svegliarmi dall’incubo. Con il cuore in subbuglio presi il sentiero dei prati. Accelerai il passo e quando mi fui allontanata a sufficienza per non essere vista mi acquattai, come avevo visto fare dai gatti, nell’erba alta. Sentivo solo la solidarietà dei ranuncoli e delle farfalle. Intanto le bambine avevano iniziato il gioco dei quattro cantoni, divertendosi un mondo. Le risate mi scoppiavano nelle orecchie come petardi e i pensieri continuavano a rimbalzare a vuoto. Non riuscivo a capire quello che era appena successo. Osservai attentamente la bambina che ridendo mi aveva dileggiato con la cantilena «Cengghelemore hesch s’födle a de schnore», («Cengghelemore hai il culo sul muso»)* e mi chiesi cosa ci distinguesse, facendomi diventare un essere riprovevole. I miei genitori mi avevano spiegato che ero di nazionalità italiana, tuttavia mi ero fatta un’idea molto confusa di ciò che riguardava i concetti di “nazione” e “confine”. Brigitte mi aveva abbandonata, perché? Si era dimenticata che alcune settimane prima ci eravamo promesse eterna amicizia con un patto di sangue?

Presi la via di casa e passai davanti alla scuderia. Il posto di Noblesse era vuoto. Avevo pensato che la sua assenza fosse dovuta a una trasferta per le gare. Solo ora ammisi a me stessa che la coda imbalsamata appesa alla parete del corridoio era quella Noblesse, che il suo posto era vuoto perché era morta. Piansi a lungo ricordandomi di quando le portavo delle mele o pane secco, di cui era ghiotta. Ricambiava carezzandomi col suo muso morbido. Quando ero girata di schiena, mi sorprendeva con dei buffetti giocosi. Chiudendo gli occhi potevo vederla mentre galoppava sul prato facendo volare al vento coda e criniera.

Il cuore gonfio di tristezza mi staccai dalla porta della scuderia. Arrivata a casa andai subito in bagno dove cercai di cancellare le tracce delle lacrime.

Non riuscivo ad esprimere i sentimenti legati a questi episodi, né a mia madre né ad alcuna persona a me vicina, ma mi vergognavo intimamente come se fossi io la causa di un marchio indelebile che mi faceva apparire diversa dagli altri.

 

Erveda Sansi

(da 'l Gazetin, luglio-agosto 2008)

 

 

* Zigüner (zingaro), cenggh, cenggheli, cengghelemore sono epiteti e «Cengghelemore hesc s’födle a de schnore»Cengghelemore hai il culo sul muso») un motteggio, derivanti forse dal gioco della mora, in voga tra gli immigrati e dal numero cinque, uno dei numeri del gioco, con cui in Svizzera vengono (da alcuni) apostrofati gli italiani.


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