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Valter Vecellio. Un articolo del “Foglio”, le riflessioni di Andreatta, un saggio di Walzer 
Materiali per un possibile dibattito
09 Giugno 2008
 

Tre annotazioni. La prima: Il Foglio di ieri (domenica 8 giugno), pubblica un articolo: “La pattuglia radicale fa proseliti fra i prodiani scontenti di W.”. Si legge, che il prodiano Arturo Parisi chiede al segretario del Partito Democratico Walter Veltroni di «ammettere la sconfitta» e abbandonare l’idea di una rivincita, «irrealizzabile» nel segno della continuità. Si riassume il senso di quanto Parisi aveva detto a Repubblica, e cioè che se non si rompe con il passato, non si vince, rinascono le correnti e non si realizzerà mai il progetto di cui è – Parisi – tra i più convinti sostenitori e promotori. Scrive Il Foglio: «Ai radicali confluiti nelle liste del PD non è parso vero leggere certe argomentazioni. E anche il senatore democratico Marco Follini ha riconosciuto a Parisi “il merito di spingere tutti a una riflessione, appunto, cruda e onesta”. Sono infatti i radicali a cercare più di altri il dibattito. Attraverso nuove consultazioni, allargate alle sinistre e ad alcuni esponenti del PD, i nove parlamentari pannelliani puntano a mettere in circolo proprio quella ‘leadeship collettiva’ evocata da Parisi come unico, vero punto di arrivo del progetto democratico. Con la speranza che in futuro il pensiero di Marco Pannella sia considerato una risorsa nel PD. L’obiettivo è dichiarato: ‘Non si vuol fare un altro partito, ma mettere in crisi il partito fondato sulla tessera’, dicono in via di Torre Argentina. Cioè quello che, secondo Parisi, ha portato sì a una ‘separazione consensuale’ fra le sinistre, ma non ha generato ‘un confronto programmatico esigente’, né la ricerca di ‘una nuova unità riformatrice’».

Il progetto radicale, aggiunge Il Foglio, «è stato tracciato a maggio nell’assemblea di Chianciano e ora sta assumendo una certa concretezza. Una prima riunione con alcuni esponenti della Sinistra democratica, Verdi e Rifondazione c’è stata dieci giorni fa nel quartier generale pannelliano. Un’altra, che si preannuncia più consistente, è prevista tra dieci giorni…». Si racconta poi di un interesse di Parisi; di un’ipotesi di possibile aggregazione di “sinistra liberale” che comprenderebbe in parlamentari radicali, ma non solo loro, una presa di posizione del senatore democratico Giorgio Tonini, secondo il quale “si è trovata una sintesi intelligente dopo un lungo dibattito… Siamo un partito di iscritti per l’elaborazione delle proposte, poi ci sono gli elettori. Nel 2009, alla scadenza del mandato affidato a Veltroni, ci sarà il congresso del PD, che selezionerà le candidature. Questo non toglie che si possano sperimentare forme di patti federativi». Il Foglio riassume: «Se i radicali accetteranno di essere una componente con un loro tesseramento, saranno una componente interna al PD».

 

Seconda annotazione. Filippo Andreatta sul Corriere della Sera (domenica 8 giugno) pubblica un’analisi significativamente intitolata “Il PD soffocato dalle segreterie”. Conviene riprenderne qualche brano: «Il PD non è stato in grado di superare la fatidica “quota 12 milioni” di voti (raggiunta dalle sue componenti fondatrici nel 1996 e nel 2006, sfiorata nel 2001, e curiosamente simile, anche per distribuzione territoriale, al numero di voti del PCI al suo apoce nel 1976) e difficilmente potrà “sfondare” la quota di consensi che proveniva in dote dai partiti che sono confluiti nel PD in assenza di innovazioni radicali. Le ragioni delle difficoltà sono molteplici, ma una tra la più importante è il modo “vecchio” nel quale viene selezionato il suo ceto politico».

Per Andreatta «il PD è un partito ancora nostalgicamente dominato, come i partiti di massa del ‘900, dalle segreterie (nazionale, regionali e provinciali) e non dai leader istituzionali (che in alcuni casi eccezionali possono ambire a un certo dualismo), isolando le gerarchie dai risultati elettorali e rendendo estremamente difficile l’ingresso ai vertici dei vari livelli…Per quanto appena nato, il PD non è quindi per nulla immune all’ondata di professionalizzazione della politica che ha investito la seconda Repubblica, consentendo al ceto politico dei partiti fondatori di sopravvivere, e dominare, al suo interno. Questo crea un problema di credibilità, che è destinato a frenare il suo successo elettorale…».

Per suffragare il suo ragionamento, Andreatta poi fa un esempio che ora è (quasi) luogo comune, ma che si fu in pochi a denunciare: «I deputati e i senatori del PD sono ‘nominati’ invece che ‘eletti’, e questo riduce drasticamente le probabilità di un ricambio della classe dirigente, rafforzando la partitocrazia. A parte qualche cooptazione ampiamente discussa sui giornali (che con poche eccezioni hanno coinvolto persone scarsamente politicizzate o già interne al ceto politico di DS e Margherita), non si vede come, guardando al suo gruppo parlamentare o leggendo le cronache dei regolamenti di conti tra le sue correnti sul giornale, il PD proietti un’immagine diversa dalla ‘fusione fredda’ delle nomenklature dei partiti fondatori. Si è dunque utilizzata un’idea innovativa (quella di un partito all’“americana”) per rilegittimare vizi antichi e tipicamente “italiani”, invece che per innescare quel processo di cambiamento radicale che i cittadini chiedevano».

 

Terza annotazione. Il Sole 24 Ore, nel suo sempre interessantissimo supplemento domenicale pubblica un piccolo saggio di Michael Walzer, un intellettuale statunitense progressista, co-direttore della rivista Dissent: “E la sinistra perse il popolo”. Negli Stati Uniti, si riassume redazionalmente, «i movimenti contro la guerra in Vietnam ottenevano più sostegni tra la borghesia che tra gli operai. Per Walzer c’era un errore di base che sarebbe stato meglio capire». Solo in apparenza Walzer parla di cose a noi lontane, temporalmente e geograficamente. Perché dopo una serie di esempi che videro Walzer e la sua generazione coinvolti in prima persona, una notazione che vale per l’oggi: «…È quando gli uomini di sinistra non riescono a connettersi con la gente dalla cui parte ritengono di stare, che siamo tentati dall'avanguardismo politico. Se non siamo connessi, dev’essere perché ci siamo spinti troppo avanti. Oppure, siamo tentati da una sorta di politica virtuale. Se non siamo connessi, dev’essere perché disdegniamo i nostri vincoli di lealtà verso le realtà locali: siamo uomini e donne cosmopoliti, siamo connessi con i contadini del Vietnam con tutti i popoli oppressi del Terzo Mondo, anche se loro non lo sanno. Jean-Jacques Rousseau ha scritto ottime riflessioni critiche sulle persone che amano l’umanità ma non riescono ad andare d’accordo con i loro vicini. In democrazia, questo atteggiamento non porta al successo, perché sono i vostri vicini a votare. Il problema della politica di sinistra, allora come oggi, è quello di trovare un modo per sostenere opinioni impopolari e restare tuttavia connessa con il ‘popolo’ o con buona parte di esso. Una strategia è quella di concentrarsi su problemi politici concreti, quotidiani – sul welfare, sull’assistenza sanitaria, sul salario minimo – dove abbiamo buone possibilità di convincere molti dei nostri vicini, e di restare dalla parte dalla parte di quel popolo che diciamo di rappresentare…».

Walzer – gli sia reso merito – non è, come tanti, un “pentito”: «Per tutti noi che vi abbiamo preso parte, l’ondata di sinistra degli anni Sessanta, con la politica dei diritti civili e l’opposizione alla guerra del Vietnam, è stata un’esperienza entusiasmante. Ha condotto un gran numero di uomini e donne, soprattutto giovani, a una vita di impegno politico, che molti non hanno ancora abbandonato. Sotto molti aspetti, ha cambiato in meglio la cultura americana». Non solo americana, ci si permette di emendare.

Conclude Walzer: «Tuttavia non ha prodotto una politica sostenibile; la sua eredità istituzionale è praticamente nulla. Anzi, ha di fatto contribuito a uno slancio quarantennale della destra a cui solo ora abbiamo qualche possibilità di porre fine. La prossima volta dovremmo fare meglio».

 

Per cercare di riassumere: le riflessioni raccolte dal Foglio; le considerazioni di Andreatta; l’analisi di Walzer. Sono unite da una ragnatela di “fili”, e a leggere i tre articoli in successione, se ne ricava un quarto, con una quantità di elementi che possono arricchire la nostra riflessione e il nostro dibattito. Il quel “quarto articolo”, però occorre avere la pazienza (e anche il rigore) di proporre contestualmente una lettura che forse anche per noi non è inutile: quella dello Statuto che in anni lontani, tra Faenza e Bologna un pugno di radicali seppero e vollero elaborare, ricavando uno straordinario utensile non tanto e non solo per i radicali, quanto, soprattutto, per tutti: un partito “snello”, come s’usa dire oggi, senza probiviri e con le iscrizioni che si “accolgono” senza possibilità di essere rifiutate; congressi a data fissa, a cui possono partecipare iscritti e non iscritti; la possibilità – esplicitamente teorizzata – della seconda tessera; il “disegno” di un partito strutturato in modo autenticamente federale… Uno straordinario modello politico e organizzativo che andrebbe studiato; una “teoria della prassi”, una “forma-sostanza” che viene offerta e che ci si augura venga inclusa. Non è il “partito liquido”, non è il “partito magma”, che per tante buone ragioni molti vedono come fumo negli occhi.

 

Se ne può e se ne deve parlare. Perché la prossima volta «dovremmo fare meglio», ma possiamo fare meglio.

 

Valter Vecellio

(da Notizie radicali, 9 giugno 2008)


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