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Aunohita Mojumdar. Afghanistan. Se la libertà è morte
La corrispondente del ‘We News’, Aunohita Mojumdar
La corrispondente del ‘We News’, Aunohita Mojumdar 
09 Ottobre 2007
 

KABUL, Afghanistan. Ogni anno, la festività di Eid, che chiude la stagione mensile del Ramadan, viene commemorata con l'amnistia presidenziale per i prigionieri. È un far mostra di benevolenza culturale, giacché il Ramadan viene tradizionalmente celebrato con le famiglie riunite. Ma mentre questa festa di Eid si avvicina con la data del 13 ottobre, gruppi femminili e ong internazionali stanno mettendo sull'avviso che molte prigioniere, se rilasciate, diventeranno delle vagabonde senza casa, ostracizzate e vulnerabili allo sfruttamento sessuale. Altre potrebbero tornare immediatamente in prigione perché donne “non accompagnate”. Altre ancora saranno vittime dei loro parenti, che desiderano punirle più severamente, spesso con la morte.

«Le donne muoiono, dopo aver lasciato la prigione», dice la dottoressa Anou Borrey, consulente per la giustizia di genere del Fondo per lo sviluppo delle donne delle NU in Afghanistan.

«Le afgane in prigione potremmo dirle fortunate, almeno sono vive», dice Carla Ciavarella, coordinatrice del programma legale dell'ufficio delle NU che si occupa di droga e criminalità in Afghanistan. L'ufficio ha lavorato con il sistema penitenziario afgano per quattro anni. «Non sappiamo quante donne vengano uccise e abusate nelle loro stesse case, ogni giorno».

Gli avvertimenti seguono un rapporto dello stesso ufficio dei primi di settembre, in cui si documentava come circa metà delle donne presenti nelle maggiori prigioni afgane sono detenute per i cosiddetti “crimini morali”: adulterio, fuga da casa, l'essere state trovate in compagnia di un uomo che non era loro parente, e persino l'aver dato rifugio ad una donna in fuga.

Christina Orguz, rappresentante afgana dell'agenzia NU, dice che nella maggior parte degli altri paesi del mondo queste detenute sarebbero considerate vittime di crimini, e non criminali.

I dati del rapporto riecheggiano la ricerca sullo status delle donne in Afghanistan rilasciata nel gennaio 2007 da Medica Mondiale, un gruppo che si occupa del sostegno a donne e bambine traumatizzate nelle zone di guerra o di crisi, e che ha lavorato moltissimo con le prigioniere afgane: 

«Il caos giudiziario fa sì che le donne vengano ritenute responsabili dei crimini anche se ne sono vittime, e i casi vengono giudicati in base a leggi tribali o tradizioni, invece che in base al codice penale vigente. In particolare, viene perseguito il reato detto zina, o contatto sessuale al di fuori del matrimonio, senza neppure accertarne la realtà, e le donne vengono condannate alla prigione anche se hanno subito uno stupro».

Il rapporto redatto dall'ufficio NU si è avvalso delle interviste alle prigioniere, fra cui 56 delle 69 detenute della prigione di Pul-e-Charki, situata alla periferia di Kabul. Una di esse ha narrato agli intervistatori che suo marito ha ucciso un altro uomo durante una disputa per il possesso di certi terreni, e per farla franca ha detto di aver commesso l'omicidio a causa dell'adulterio della moglie. Poiché la donna non aveva testimoni che dicessero che non l'aveva commesso, è stata imprigionata. Analfabeta e povera, dovrà scontare sei anni di galera assieme al figlioletto. La sentenza iniziale era di un anno, ma è stata aumentata dopo che la donna ha chiesto il divorzio, una richiesta che ella ritiene abbia maldisposto il giudice nei suoi confronti.

Alcuni dei “crimini” delle donne non sono presenti neanche nell'attuale codice penale afgano, che pure si basa sulla sharia, o legge islamica. Il sistema giudiziario basato sulla sharia, ed anche sui tradizionali consigli degli anziani (che spesso sono ancora più duri), vede le donne come proprietà della famiglia estesa del marito, una visione che distorce l'interpretazione delle leggi penali.

Essendo “proprietà”, per esempio, le donne non hanno il diritto di andarsene da casa, perché non hanno il diritto di uscirne senza il permesso del marito o di un parente maschio, un costume che preserva gli uomini dall'essere deprivati dei loro “possedimenti”. Le donne sono anche le custodi dell'onore familiare, ed ogni erosione percepita di tale onore può essere considerata pericolosa e punibile dalle famiglie. Uno studio di UNIFEM del maggio 2006 stima che l'82% degli atti di violenza contro le donne afgane venga commesso da membri delle loro famiglie.

La violenza domestica è comune, ma lo è di più all'interno dei matrimoni imposti, inclusi quelli che coinvolgono spose minori dei 16 anni d'età. La Commissione indipendente afgana per i diritti umani stima che la maggioranza dei matrimoni nel paese (tra il 60 e l'80%) siano forzati, e molti includono spose di sei anni. Le leggi afgane permettono ad una ragazza di sposarsi a 15 anni con il consenso paterno, ma in pratica si considera che i padri siano intitolati a garantire il consenso delle figlie qualsiasi sia la loro età. I matrimoni e i divorzi sono spesso non documentati, in Afghanistan. Ciò significa che una donna che si risposa dopo un divorzio può essere accusata di adulterio se solo il marito sostiene di non aver mai divorziato da lei. I costumi sociali e le tradizioni rendono qui molto più difficile ad una donna dare inizio alle procedure di divorzio, e la mancanza di documentazione formale sulle nascite, i matrimoni ed i divorzi rende difficile procurarsi evidenza legale. In una disputa in cui vi sia la parola di un uomo contro la parola di una donna, usualmente è l'uomo ad essere creduto. Alcuni ex mariti si avvalgono di questa mancanza di prove rispetto ai loro divorzi per ottenere compensi in denaro dal secondo marito, che avrebbe preso le loro “proprietà”. Le donne vengono date via per pagare debiti, per siglare accordi, per raddrizzare torti.

Amina, che come molte donne afgane usa sola il suo primo nome, è membro del locale Consiglio di donne per la Pace a Ghazni, una città nell'Afghanistan del sud. Incontrando a Kabul la deputata del suo distretto, ha ricordato con rabbia la storia di una vedova di 46 anni, da lei conosciuta, che era stata costretta a sposare il cognato di nove anni, perché gli “usi e costumi” dicono che una vedova deve risposarsi all'interno della famiglia del marito.

Zahira Mawlai, la deputata, ha sottolineato che secondo l'Islam il consenso della donna è obbligatorio per ogni matrimonio, e che usare la forza è considerato peccato. Ma in pratica, ha aggiunto, le donne afgane mancano spesso del potere di prendere decisioni. Un primo passo per mettere fine ai matrimoni di minorenni ed ai matrimoni forzati, ha suggerito, è denunciare tali pratiche come illegali, poiché lo sono.

I rappresentanti delle NU e i gruppi di donne come Medica Mondiale stanno lavorando per fornire alle donne prigioniere quelle capacità che le aiuteranno a sopravvivere ed a stabilire condizioni per un rilascio sicuro. Ciò include l'alfabetizzazione, la formazione professionale, e lo studio delle leggi vigenti. I volontari e le volontarie stanno anche lavorando per sottoporre delle linee guida a breve e a lungo termine al Ministero afgano per la Giustizia, per il trattamento e la riabilitazione delle detenute. In questo processo stanno raccomandando delle “case di transizione”, la cui creazione non è ancora stata stabilita.

 

Aunohita Mojumdar

(7 ottobre 2007, trad. Maria G. Di Rienzo)

 

 

Aunohita Mojumdar. Giornalista indiana, corrispondente per We News, attualmente lavora a Kabul, in Afghanistan. Ha coperto con i suoi reportage la regione dell'Asia del sud per 17 anni, ed è stata corrispondente locale durante il conflitto in Kashmir e nel dopoguerra nel Punjab.

 

 

Maggiori informazioni:

- United Nations Office on Drugs and Crime, “Female Prisoners and Their Social Reintegration

- Medica Mondiale


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