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Emma Bonino. Perché Israele deve entrare nell'UE
29 Agosto 2007
 

Alcune idee sono meno evidenti di altre. All'inizio sembrano quasi delle provocazioni. Ed è per questo che hanno bisogno di essere ripetute, spiegate, dette e ridette, fino a quando non diventano comuni, familiari.

L'ingresso di Israele nell'Unione europea è una di queste idee.

 

 

 

L'idea di portare Israele nell'UE ha quasi vent’anni e spero non ne abbia bisogno di altri venti prima che maturi nella coscienza collettiva, che diventi condivisa, e si trasformi quindi da “provocazione” in realtà.

I primi ad avanzare la proposta siamo stati proprio noi Radicali alla fine degli anni ’80, attraverso una campagna lanciata sui media israeliani e incontri con le principali personalità del Paese. Molte cose sono cambiate da allora: il contesto politico è passato da un confronto bipolare ad un nuovo (dis)ordine internazionale che oscilla tra unilateralismo e multipolarismo; il contesto economico e finanziario è oggi quello della globalizzazione, di internet, dei flussi di investimenti sempre più massicci, delle farfalle che battono le ali a Shangai e provocano terremoti dall’altra parte del pianeta. Eppure, nonostante tutto questo, le incertezze e le difficoltà del Medio Oriente, con al centro il conflitto israelo-palestinese, sono rimaste le stesse. Come se a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Gaza, la storia corresse meno in fretta.

Certo, il contesto è radicalmente cambiato, ma non per questo sono mutate le ragioni dietro ad un ingresso di Israele nell’Unione europea. Anzi, sono ancora più valide oggi di quanto non lo fossero venti anni fa.

 

Le tre ragioni per dire sì. L'ingresso è auspicabile per almeno tre ragioni. Anzitutto - ed è la ragione più importante - perché contribuirebbe, sul fronte internazionale, a risolvere questa situazione di instabilità e di logoramento decennale di cui sono vittime israeliani e palestinesi. L’adesione all’UE andrebbe ancorata al raggiungimento di accordi di pace sostanziali e duraturi tra Israele e le altri parti in causa. In questo modo, la prospettiva europea rafforzerebbe coloro che in Israele lavorano per costruire la pace regionale, a discapito di coloro che sono invece più inclini alla violenza e alla retorica dell’isolamento, e che sono intenzionati a cavalcare il sentimento dell’assedio per guadagnare consensi e potere sul piano interno. Israele sarebbe più incline a fare concessioni e trovare un accordo con i palestinesi (e i siriani) perché saprebbe di non dover contare più solo sulle sue forze, ma sul sostegno di quasi mezzo miliardo di cittadini europei. Non, quindi, entrare nell’UE per trovare la pace, ma raggiungere la pace grazie ad una prospettiva seria e credibile di adesione.

La seconda ragione riguarda il fronte interno. Una seria prospettiva di allargamento avrebbe tutto il potenziale per innescare anche in Israele nuove dinamiche di riforma, così come è già avvenuto con tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale che hanno aderito tra il 2004 e il 2007, e come sta avvenendo con la Turchia. Anche se nessuno contesta che Israele sia una democrazia consolidata, la prospettiva dell’adesione sarebbe un incentivo forte e univoco verso la costruzione di una società ancora più liberale e aperta, fondata sempre più sui diritti individuali e sul pieno rispetto delle minoranze.

Una terza ragione fondamentale riguarda infine noi europei. Attraverso il processo di adesione, noi Radicali riteniamo che l’Unione europea avrebbe la possibilità di diventare un vero attore strategico e influente in Medio Oriente. Israele rappresenta, cioè, l’occasione che l’UE ha di rafforzare definitivamente la sua credibilità come attore capace di contribuire alla soluzione di conflitti e di generare nuove dinamiche di sviluppo a livello internazionale. Si tratterebbe di una credibilità enorme, conquistata su quello che è forse il più difficile teatro moderno, e che le darebbe una proiezione globale molto più solida. Una crescita di leadership da usare per far avanzare una parte originale ed attraente dell’idea di integrazione europea: non tanto in termini culturali, ma in termini di modello di convivenza, attraverso la diffusione della democrazia, della stabilità, del rispetto dei diritti umani. È soprattutto in Medio Oriente che si gioca la partita per sconfiggere la teoria dello scontro tra civiltà, e per far vincere l’idea di un multilateralismo efficace.

 

La depressione euro-israeliana. A fronte di questo obiettivo e di queste ragioni, quali sono oggi i rapporti tra UE e Israele? E quali le prospettive di un sempre maggiore avvicinamento capace di portare, a termine, alla piena adesione? Rispondere alla prima domanda significa gettare lo sguardo sugli ultimi dieci anni, e partire dal clima di generale entusiasmo inaugurato dal Consiglio europeo di Essen nel dicembre 1994, con il quale si riconosceva la necessità di accordare ad Israele uno “status speciale” in ragione dell’alto livello del suo sviluppo economico, e dalla successiva firma, nel 1995, dell’Accordo di associazione. Questo iniziale clima positivo si è purtroppo stemperato presto: non soltanto l’Accordo, infatti, è entrato in vigore solo nel 2000, ma essendo un Accordo-quadro necessitava di misure di attuazione che traducessero in azioni concrete la volontà politica registrata cinque anni prima. Inoltre, sono sorti i primi contenziosi, come quello sui prodotti esportati nell’UE a partire dai Territori occupati. Israele sosteneva che tali beni dovessero godere dell’accesso privilegiato al mercato europeo dal momento che erano prodotti all’interno del suo territorio doganale; mentre l’Unione sosteneva che i Territori non appartenessero legalmente a Israele e che quindi i loro prodotti non potessero beneficiare del trattamento previsto dall’accordo del 1995. Il tutto in un contesto di tensione più ampio, caratterizzato dallo scoppio della “seconda intifada”, dal blocco dei rimborsi ai palestinesi da parte di Israele, e da una crescente divergenza tra Stati Uniti e UE sulla soluzione alla crisi.

Al contenzioso sulle regole d’origine è stata trovata alla fine una soluzione tecnica, a partire dal febbraio 2005, che ha messo fine ad un fronte di tensione bilaterale inopportuna, ma è certo che lo stallo non ha fatto bene a nessuno e ha pesato a lungo sulle relazioni economiche e soprattutto politiche tra le parti.

 

Il fronte interno. Il clima degli ultimi anni è stato determinato da alcuni sviluppi importanti sul fronte interno, così come da un nuovo “attivismo europeo” sul terreno medio-orientale.

Per quanto riguarda gli sviluppi sul fronte interno, i due avvenimenti chiave sono stati, da un lato, la decisione storica presa dal governo israeliano di iniziare lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia di Gaza, e dall’altro, la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi del gennaio 2006, che ha riacuito la tensione.

Per quanto riguarda il nuovo attivismo europeo, l’Unione ha cominciato a muoversi in Medio Oriente, come dimostrano almeno tre fatti particolari.

Anzitutto, la missione presso il valico di Rafah, al confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. Secondo, la partecipazione alla missione UNIFIL delle Nazioni Unite in Libano, con una presenza e un ruolo di leadership incontestato.

Missioni operate in cooperazione con gli israeliani e che solo gli europei avrebbero potuto condurre nella maniera in cui si stanno svolgendo. Per gli europei – e in particolare per gli italiani che in questo momento hanno la guida di entrambe le missioni – si tratta di una responsabilità importante, ma anche di motivo di grande orgoglio.

Il terzo fatto, infine, riguarda l’istituzione, su richiesta del Quartetto, di un Meccanismo Internazionale Temporaneo attraverso il quale portare aiuto ai cittadini palestinesi senza passare per il canale ufficiale del governo, con cui invece i rapporti sono stati congelati in attesa che vengano accettati i principi per la ripresa del dialogo: la rinuncia alla violenza, il rispetto degli obblighi internazionali e il riconoscimento dello Stato di Israele.

 

Cambiare marcia. Questa nuova capacità dell’Unione europea di essere presente nel teatro medio-orientale rappresenta tuttavia un primo passo, che non è certo sufficiente, di per sé, per farla diventare un attore determinante per la soluzione della crisi. E cioè, l’UE ha cominciato a muoversi bene, ma per ora si è mossa ancora poco.

Quello che invece serve è un vero e proprio cambio di marcia. Ed è appunto in quest’ottica che deve essere considerato il rilancio dell’idea di una piena adesione di Israele all’Unione. Certamente, il momento che l’UE sta attraversando non è dei migliori. La crisi costituzionale innescata con la bocciatura dei referendum francese e olandese nella primavera del 2005 è ancora lontana dall’essere risolta. Finché perdura, è difficile immaginare che l’Unione non rimanga almeno parzialmente ripiegata su se stessa.

Per quanto riguarda le scelte future, ci sono due dati che vanno presi in considerazione. Il primo è il passaggio da 15 a 27 stati membri. Molte delle democrazie dell’est Europa sono infatti piuttosto positive nei confronti di Israele, e favorevoli ad un rafforzamento dei legami tra le due parti. Nel medio periodo, questo dato potrebbe rivelarsi interessante. L’altro dato è rappresentato dalla Politica Europea di Vicinato (PEV), che presenta da un lato il vantaggio, rispetto alla politica euro-mediterranea inaugurata a Barcellona nel 1995, di non costringere tutti ad andare alla stessa velocità, proponendo invece un approccio differenziato a seconda del paese vicino, ma che, dall’altro, rimane comunque insufficiente per quanto riguarda il tipo di rapporti che l’UE dovrebbe stabilire con Israele. Certo, qualche passo in avanti importante è stato compiuto. Il nuovo Piano d’azione tra UE e Israele sta contribuendo a rendere progressivamente operativo l’accordo di associazione, attraverso l’adozione di misure quali la ripresa da parte di Israele di ampie porzioni dell’acquis comunitario, in vista di una sempre maggiore integrazione con il mercato unico europeo, come pure una maggiore cooperazione in materie come l’immigrazione, la lotta al crimine organizzato, l’energia, i trasporti, l’ambiente, la scienza e la tecnologia. Questo approfondimento dei rapporti non stupisce se pensiamo ad alcuni dati economici di fondo. L’UE è il primo partner commerciale per Israele, fornendo il 40% delle importazioni israeliane e rappresentando lo sbocco per oltre un terzo delle sue esportazioni. Inoltre, negli ultimi anni si è registrato un aumento significativo del flusso di investimenti diretti esteri netti, dall’UE verso Israele – dal 2001 al 2005 gli investimenti sono passati da 309 a 702 milioni di € - e da Israele verso l’UE – dove nello stesso periodo di riferimento gli investimenti sono passati da 796 a 1.152 milioni di euro.

In conclusione, dato il nuovo attivismo europeo sul fronte medio-orientale e grazie a una nuova volontà politica bilaterale, i rapporti tra Unione europea e Israele sono oggi particolarmente buoni, e vanno quindi sfruttati per andare oltre il quadro fornito dalla Politica di Vicinato.

 

La prima mossa: una partnership privilegiata. Come? La mia tesi è che vada costruito al più presto con Israele un partenariato privilegiato, che rappresenti il passo intermedio verso una vera e propria adesione. Per arrivare a questo partenariato privilegiato bisogna operare su molti fronti, ma direi – per fare solo qualche esempio – che sarebbe necessario approfondire i rapporti in materia di liberalizzazione dei servizi (che rappresentano l’80% del PIL israeliano), migliorare l’accesso reciproco agli appalti pubblici, sviluppare nuove dimensioni come quella relativa alla protezione dei consumatori, o creare un canale più forte per la cooperazione giudiziaria.

In termini istituzionali, un passo importante sarebbe quello di rafforzare la dimensione parlamentare dell’Associazione, sbilanciata oggi a favore dei rapporti inter-ministeriali. Inoltre, anche se va certamente visto in maniera positiva il fatto che per la prima volta siano stati stanziati dei fondi per attività come seminari e gemellaggi tra Israele e i paesi UE, ritengo che sia necessario darsi un’ambizione diversa, e creare dei legami molto più forti tra le pubbliche amministrazioni israeliana ed europee (nazionali, e non solo comunitaria).

In termini di politica estera, infine, al partenariato privilegiato si arriva ricercando un maggiore allineamento di Israele sulle posizioni comuni della PESC e lavorando ad un migliore coordinamento tra le due parti nelle diverse assisi internazionali.

In altri termini: il partenariato privilegiato sarà il risultato di un sensibile approfondimento dei rapporti su tutti i versanti. Si potrebbe prendere a modello il tipo di relazioni che esistono all’interno dello Spazio Economico Europeo (SEE), e che forniscono il legame “tecnico” più stretto che ad oggi si possa avere con l’Unione. È anche vero che nel caso di Israele si dovrà trattare da subito di una sorta di statuto “SEE plus”; è chiaro, infatti, che nessun partenariato rafforzato tra UE e Israele potrà limitarsi agli aspetti economici e alle politiche comuni, dovendo comprendere una forte dimensione sicurezza, sia sul piano interno che internazionale, e quindi una dimensione più squisitamente politica. Questo perché senza la dimensione sicurezza, senza una volontà politica, non ci sono speranze di costruire quella nuova fiducia di cui c’è bisogno per approfondire i rapporti bilaterali. Ma l’Unione è credibile quando parla di sicurezza con Israele solo se offre la prospettiva di una piena adesione. E così torniamo al punto di partenza: il cerchio torna a chiudersi qui.

 

Due popoli/due democrazie. Ma c'è un altro aspetto essenziale legato all’adesione di Israele nell’UE: il suo possibile impatto sulle prospettive di cooperazione regionale. Noi Radicali abbiamo sempre sostenuto che si dovesse parlare e lavorare non per «due popoli/due stati» ma per «due popoli/due democrazie». Solo quest’ultima, infatti, può essere una soluzione veramente all’altezza dei tempi moderni, dell’era della globalizzazione e dell’integrazione post-nazionale – una soluzione da XXI piuttosto che da XX secolo.

Questa soluzione, però, va portata avanti in concomitanza con un processo di integrazione in cui parte della sovranità – vecchia e nuova – risulti alla fine condivisa e messa al servizio di tutti i cittadini, israeliani e palestinesi. Il miracolo che è stato realizzato all’indomani della seconda guerra mondiale sul vecchio continente – tra Francia e Germania nell’immediato, e tra Europa occidentale e Europa dell’est nel lungo periodo – può essere oggi realizzato in Medio Oriente. L’allargamento dell’UE ad Israele non dovrebbe quindi avvenire a discapito di un rafforzamento dei legami con un nuovo futuro Stato palestinese. Bisogna scongiurare che l’ingresso di Israele nell’UE si trasformi nell’occasione per alzare un nuovo muro, invece che per contribuire ad abbattere quelli ancora in piedi.

Bisogna assicurarsi, inoltre, che l’adesione avvenga insieme ad un rafforzamento dei legami economici tra Israele e i suoi vicini, e che sia quindi l’occasione per una maggiore apertura e per compiere decisi passi in avanti verso l’integrazione regionale.

Se abbiamo in mente tutto questo, capiamo come ciò che aspetta Israele – questa nuova prospettiva storica che l’Europa deve essere in grado di offrire – abbia tutte le carte per produrre un nuovo miracolo economico, sociale e politico. È una sfida importante per gli israeliani, ma è una sfida cruciale anche per noi.

L’Europa oggi non può più permettersi di guardare solo al suo interno. Per il suo stesso futuro, per la sua crescita economica, per la sua sicurezza interna, per la gestione di una società multiculturale, deve diventare sempre più capace di guardare fuori e dare un contributo decisivo ai problemi che affliggono il mondo. Non possiamo pensare di restare tranquilli senza fare nulla per migliorare le condizioni di vita di milioni di persone che vivono appena oltre le nostre frontiere europee. L’Unione è il più grande donatore di aiuto ai palestinesi e il primo partner commerciale per Israele; gli eventi più recenti, dalla missione al valico di Rafah all’istituzione del Meccanismo internazionale temporaneo, al varo di una politica di vicinato, hanno dimostrato che può esprimere un soft power efficace. Per questo è il tempo di rilanciare.

Il fatto, però, è che questo rilancio può avvenire oggi solo a condizione che insieme al forte desiderio e alla disponibilità delle energie richieste in tal senso ad entrambe le parti, si delinei anche al più presto una visione chiara della direzione verso cui canalizzare queste energie e questo desiderio. È esattamente questa la ragione per cui risulta importante tornare, oggi, a sostenere con forza e apertamente l’idea di ampliare l’Unione europea allo Stato di Israele. Per offrire alle relazioni bilaterali questa visione chiara che ancora manca.

Di sicuro, il primo passo in questa direzione spetta ad Israele stesso. Solo Israele può decidere se fare o meno una richiesta formale di adesione. Molti esponenti del mondo politico e culturale israeliano si sono già dichiarati favorevoli. Tra questi Shimon Peres, Amos Oz o Elie Wiesel. Un recente sondaggio ha inoltre dimostrato che come loro la pensa il 75% degli israeliani.

Nonostante ciò, non si è ancora sviluppato in Israele un dibattito vero sulla questione. Sta infatti ad Israele, prima di tutto, chiarire la propria posizione, dire se è disposta a condividere parte della propria sovranità così come già oggi fanno 27 paesi europei. A mio avviso, quella parte della classe dirigente israeliana che guarda all’Europa deve cominciare a dire chiaramente che tipo di prospettiva vuole offrire al paese. Deve cominciare a dirlo, e a remare in quella direzione.

Evidentemente, poi, anche l’Unione dovrà fare nel frattempo la sua parte, chiarendo le proprie intenzioni. A riguardo, c’è da augurarsi solo che quando verrà il momento di sciogliere il nodo, non vengano avanzati di nuovo criteri geografici, come se la costruzione europea fosse uno spazio fisico e non uno spazio politico; oppure criteri religiosi, per riproporre ancora una volta il dibattito sulle radici, piuttosto che aprirne uno nuovo sul frutto che tutte queste radici hanno prodotto assieme, che è poi la democrazia liberale fondata sui diritti individuali, lo stato di diritto, e la promozione della diversità intesa come ricchezza. C’è da augurarsi, cioè, che l’Europa non cada vittima della “sindrome da club”, che non si ripieghi su se stessa, e che mostri invece di sapere come aprirsi al mondo.

 

Emma Bonino

Deputato della Rosa nel Pugno,

Ministro per il Commercio internazionale e per le Politiche europee

(da Aspenia, 28 agosto 2007)


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