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Arwa Damon. Per dar da mangiare ai nostri bambini
Arwa Damon, reporter
Arwa Damon, reporter 'CNN' 
20 Agosto 2007
 

Baghdad, Iraq. Queste donne sono troppo spaventate, e si vergognano troppo per mostrare il viso o per usare il proprio vero nome. Sono state costrette a vendere i loro corpi per mettere del cibo in tavola per i loro bambini, per 8 miseri dollari al giorno.

 

«La gente non dovrebbe criticare le donne, o insultarle», dice la 37enne Suha mentre si aggiusta la sciarpa colorata che indossa al solo scopo di evitare gli estremisti che impongono alle donne di coprirsi. «Dicono che stiamo sbagliando strada, ma non si chiedono mai cosa ci ha condotte a prenderla». Madre di tre figli, Suha porta un trucco leggero, un pendente dorato che raffigura l'Iraq e irradia un inaspettato senso di eleganza. «Non ho i soldi per portare mio figlio dal medico. Farò qualsiasi cosa per aver cura di lui, perché sono una madre», aggiunge, spiegando perché è giunta a prostituirsi. La rabbia e la frustrazione crescono nelle sue parole mano a mano che parla: «Non ha importanza cos'altro sono, non ha importanza quanto sono sulla strada sbagliata, io sono una madre!»

Incrocia e scioglie le dita di continuo, nervosamente. Suo marito crede che vada a fare pulizie in altre case, quando si allontana dalla sua. E la stessa cosa crede la famiglia di Karima.

 

«All'inizio andavo davvero a far pulizie, ma non guadagnavo quasi niente», racconta. «Per quanto duro lavorassi, i soldi non bastavano». Karima è completamente coperta dall'abito nero. «Mio marito è morto di cancro al polmone nove mesi fa, e non mi ha lasciato nulla». Ha cinque figli, che vanno dagli otto anni ai diciassette. Il maggiore potrebbe lavorare, ma Karima teme per la vita del ragazzo lasciandolo uscire per le strade, e preferisce sacrificare se stessa che rischiare il figlio. Di prostituirsi le fu proposto per la prima volta mentre stava pulendo un ufficio. «Si sono approfittati di me», dice sottovoce. «All'inizio ho rifiutato, ma poi ho capito che dovevo farlo».

 

Suha e Karima hanno clienti che le contattano un paio di volte a settimana. Altre donne vanno sino al mercato a cercarsi i clienti, o fanno cenno agli automobilisti. La prostituzione è una scelta che sempre più donne irachene stanno facendo, semplicemente per sopravvivere. «Sta aumentando», conferma Suha. «Io ho trovato questa “cosa” tramite un amico, ed ho un'amica che sta facendo quello che faccio io, costretta dalle circostanze».

 

La violenza, il costo della vita sempre più alto, la mancanza di ogni tipo di aiuto da parte del governo, lasciano a queste donne ben poche altre opzioni, dicono i lavoratori delle ong umanitarie. «Siamo al punto in cui una popolazione di donne deve vendere i propri corpi per mantenere vivi i propri figli», dice Yanar Mohammed, direttrice e fondatrice dell'Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq. «È un tabù, e nessuno ne sta parlando. C'è un enorme numero di donne vittime della guerra, che hanno perso tutto. Spezza il cuore vederle, ma noi dobbiamo agire per risolvere la cosa, ed è per questo che abbiamo dato inizio ad uno speciale team di attiviste».

La squadra di cui Yanar parla gira per le strade di Baghdad in cerca di queste donne, che spesso si sentono troppo umiliate per contattarle. «La maggior parte delle donne che hanno tentato di commettere suicidio, e che troviamo negli ospedali, erano state coinvolte nella prostituzione», racconta Basma Rahim, membro della squadra. Il compito che l'ong si prefigge è il compilare informative su casi specifici e renderne edotti i politici iracheni affinché, come spiega Yanar Mohammed, «Ci dicano che cosa intendono fare».

 

Basma Rahim racconta la storia straziante di una donna che hanno soccorso, e che viveva in una sola stanza con tre bambini. «Aveva rapporti sessuali con i bambini presenti, ma li metteva voltati, in piedi, negli altri angoli della stanza». Secondo Rahim e Mohammed, la maggioranza delle donne che esse incontrano dicono loro che sono forzate a prostituirsi dal disperato desiderio di sopravvivenza in un contesto pericolosamente violento e terribile. «Hanno preso una decisione, ma non ne sono contente», puntualizza Rahim.

 

Karima dice che quando vede i propri figli seduti a tavola a mangiare, riesce a convincersi che ne vale la pena: «È per i bambini. I bambini sono la bellezza della vita, e senza di essi non potremmo vivere». Ma aggiunge: «Non permetterò mai a mia figlia di farlo. Sarebbe meglio che si sposasse a tredici anni, piuttosto di passare quel che passo io».

Gli ultimi ricordi felici di Karima risalgono a quando suo marito era ancora vivo, e loro erano una famiglia, in grado di spalleggiarsi l'un l'altra attraverso le durezze di un'esistenza nell'Iraq odierno. Suha mi racconta invece che sin da ragazzina sognava di diventare una medica, e che sua madre sosteneva con molto vigore questa scelta, enumerandole i potenziali di una carriera in medicina. La vita non avrebbe potuto portarla più lontana da quel sogno: «Non è che siamo nate in questa situazione, né mi era mai venuto in mente prima». Ciò che fa per dar da mangiare alla sua famiglia la sta per contrasto divorando: «Me ne vado a letto e come poggio la testa sul cuscino comincio ad avere vertigini, e mi tornano addosso tutte le immagini, come se stessi guardando un film».

 

Arwa Damon

(servizio per la CNN, 17 agosto 2007 – traduzione di M.G. Di Rienzo)


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