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Roberto Fantini. Stop alla tortura e verità per Giulio Regeni 
Non si ferma la campagna di Amnesty International
05 Giugno 2016
 

Intervista ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia

 

 

Che la situazione in terra egiziana non fosse particolarmente rassicurante lo si sapeva anche da molto prima che ci ritrovassimo feriti dalla vicenda di Giulio Regeni. Consultando, infatti, il Rapporto annuale di Amnesty International era facilmente possibile apprendere del deterioramento progressivo di una realtà già ampiamente preoccupante sotto il profilo del rispetto dei diritti umani. Le autorità egiziane, nel corso del 2015, hanno imposto restrizioni sempre più rigide ed arbitrarie ai diritti alla libertà d’espressione, associazione e pacifica riunione.

Ad agosto, il governo ha promulgato la Legge 94, una nuova legislazione antiterrorismo in cui la definizione di “atto terroristico” viene formulata in termini vaghi e oltremodo generici, conferendo al presidente il potere di «adottare le misure necessarie per assicurare l’ordine pubblico e la sicurezza», consentendo l’istituzione di tribunali speciali e stabilendo pesanti ammende per i giornalisti che avessero pubblicato notizie sul “terrorismo” con contenuto non in piena sintonia con la linea ufficiale del governo.

Sono così state incarcerate (oltre a leader e attivisti politici d’opposizione) numerose persone “colpevoli” di aver osato esprimere giudizi critici verso il governo. Alcune di esse sono state anche sottoposte a sparizione forzata: gruppi per i diritti umani hanno riferito di aver ricevuto decine di denunce riguardanti casi di persone arrestate dalle forze di sicurezza e poi rimaste detenute in incommunicado.

Giornalisti che lavoravano per conto di organi d’informazione critici verso il governo o legati a gruppi dell’opposizione sono stati perseguiti penalmente per aver pubblicato “notizie false” e per altre accuse di ordine politico. In alcuni casi sono state comminate lunghe pene carcerarie e addirittura una condanna a morte. Alcune persone, per aver esercitato pacificamente il loro diritto alla libertà d’espressione, sono incappate in pesanti procedimenti giudiziari sulla base di accuse come “diffamazione della religione” e offesa alla “morale pubblica”.

Gli apparati di sicurezza hanno fatto sovente ricorso ad un uso eccessivo della forza contro manifestanti, rifugiati, richiedenti asilo e migranti, mentre detenuti hanno subìto tortura e altre forme di maltrattamenti. In taluni casi, sono state arrestate anche persone accusate di “indecenza”, a causa dei loro supposti orientamenti sessuali.

I tribunali hanno emesso, inoltre, centinaia di condanne a morte e sentenze a lunghi periodi di carcerazione al termine di processi di massa dal carattere palesemente iniquo e arbitrario. Le forze di sicurezza e dell’intelligence militare hanno torturato i detenuti sotto la loro custodia, con metodi che comprendevano, tra l’altro, scosse elettriche o costrizione a rimanere in posizioni di stress. Numerose anche le segnalazioni di decessi in custodia causati da tortura, da altri maltrattamenti e da mancanza di accesso a cure mediche adeguate

La morte di Giulio Regeni va, pertanto, necessariamente collocata all’interno di questo quadro generale di riferimento, tenendo presente, in particolare, che le sparizioni forzate sono diventate un fenomeno dolorosamente assai diffuso nell’Egitto di oggi.

In base ai dati finora diffusi da due Ong (la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, diretta dall’ex ricercatore di Amnesty International Mohamed Lotfy, e il Centro El Nadim per la riabilitazione delle vittime di violenza della psichiatra Aida Seif Al Dawla) ritenute assolutamente attendibili da Amnesty International, da agosto 2015 ad oggi, il totale delle persone scomparse sarebbe di ben 533 casi. Su 396 di questi, nulla ci è ancora possibile sapere, anche se è fondatamente possibile ritenere che siano in mano ai servizi di sicurezza dello stato.

Soltanto in aprile 2016 sono sparite forzatamente 86 persone (praticamente tre al giorno!). Sempre nel mese di aprile, invece, quelle uccise nelle prigioni e nei commissariati di polizia sono state nove: otto per mancata fornitura dell’assistenza medica necessaria e uno per tortura.

Secondo El Nadim, nel corso del 2015, si sarebbero verificati 1176 casi di tortura, di cui quasi 500 con esito mortale. Nei luoghi di detenzione la tortura è dilagante e le condizioni terribili: sovraffollamento, mancanza di ventilazione, privazione di cibo, assenza di cure mediche. Il numero di morti per negligenza medica all’interno delle carceri (catalogate impropriamente come “morti naturali”) mette in luce una deliberata privazione di assistenza sanitaria per i detenuti.

Nel paese si lamenta una totale assenza dello stato di diritto. Le forze armate e le forze di sicurezza godono di un’assoluta impunità nell’uccidere e nell’incarcerare. Ci sono anche prigioni segrete e i malcapitati possono passare anni imprigionati ancor prima del processo, senza vedere in faccia il proprio giudice. Il prolungamento della detenzione è rinnovato automaticamente e molti sono i casi anche di esecuzioni extra-giudiziali. L’utilizzo di armi da parte della polizia è senza precedenti: le forze di sicurezza, siano esse esercito o polizia, sapendo di essere costantemente protette, finiscono per attribuirsi e per esercitare una vera e propria “licenza di uccidere”.

Al fine anche di parlare di tutto questo, nell’ambito delle campagne “Stop Tortura” e “Verità per Giulio Regeni”, sabato 28 maggio, il Comune di Albano Laziale (Roma) e Amnesty International - Circoscrizione Lazio hanno organizzato una felice iniziativa che ha visto anche un bel coinvolgimento di alcune scolaresche in un flash mob nella piazza principale del paese.

Ad Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, intervenuto nel convegno organizzato presso il palazzo municipale, abbiamo rivolto alcune domande per meglio mettere a fuoco alcuni aspetti del caso Regeni.

 

Il caso di Giulio Regeni ha suscitato in tanti non solo indignazione, ma anche parecchio stupore: perché una tale assurda ferocia contro un giovane certamente non pericoloso?

Giulio Regeni era un giovane studioso italiano che svolgeva delle ricerche, nell'ambito di un progetto dell'Università di Cambridge, al Cairo. Nella seconda metà di gennaio è scomparso ed è stato ritrovato morto dopo alcuni giorni con segni inequivocabili di tortura. Sul perché sia stato ucciso per il momento si possono fare solo delle ipotesi. Robert Fisk, un commentatore autorevole, ha ipotizzato che i contatti di Regeni con gli ambienti sindacali egiziani, una spina nel fianco del regime, su cui stava facendo la sua ricerca, gli sarebbero stati fatali. Questa può essere una spiegazione specifica. Forse, però, interessa di più la spiegazione generale: è il contesto che spiega meglio quello che è accaduto. E il contesto è di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani: sparizioni e tortura non sono una novità di oggi in Egitto, ma, in questo periodo, sono pratiche particolarmente diffuse. E sono diffusissimi anche gli arresti arbitrari e i processi iniqui. Amnesty International ha notizia di 12.000 arresti di manifestanti o oppositori nei primi 10 mesi del 2015!

Un paio di mesi fa, è stato rilasciato, per fortuna, un ventenne che aveva trascorso gli ultimi due anni in carcere per avere indossato una maglietta con una scritta che chiedeva la fine della tortura (“Nation Without Torture”). Molte altre persone, invece, sono attualmente in carcere, tra cui il fotoreporter conosciuto col soprannome Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013, mentre stava seguendo, per conto di un'agenzia di stampa inglese, lo sgombero di un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana in un quartiere del Cairo, in occasione del quale le forze di sicurezza hanno ucciso moltissimi manifestanti. È detenuto in attesa di processo da quasi 1.000 giorni. Le imputazioni nei suoi confronti sono state rese note al suo difensore due anni e mezzo dopo l'arresto. Anche Shawkan è stato torturato e non gli viene permesso di curarsi per l'epatite C.

Cito volentieri questo caso particolare anche perché, qualche giorno fa, la famiglia di Giulio Regeni ha voluto firmare, con un bel gesto, un nostro appello per chiedere il suo rilascio.

 

Rimane, però, difficile capire i motivi che possano aver indotto ad accanirsi contro uno straniero, con il rischio di suscitare un clamore di portata mondiale.

Quel che a me interessa sottolineare è che alle violazioni diffuse e sistematiche si accompagna di regola una vera e propria cultura dell'impunità. Ciò rende meno strano, meno implausibile l'omicidio di Giulio. Sono molti a chiedermi come sia stato possibile che uno straniero, uno studioso, abbia potuto fare quella fine. Alcuni si chiedono se non fosse più semplice espellerlo. Certamente sì, e qualcosa probabilmente non è andato per il “verso giusto”. Ma, in un paese in cui servizi di sicurezza ed esercito sono abituati da decenni a commettere abusi senza non doverne mai rendere conto, senza mai rischiare di essere puniti, anche uno straniero può essere torturato a morte senza troppi scrupoli e calcoli. Da certi segnali, tra l’altro, si capisce che le autorità egiziane sono rimaste piuttosto stupite dall'entità e dall'estensione della reazione. Proprio perché in piena contraddizione con una antica e consolidata cultura dell'abuso di potere e dell'impunità.

 

Dopo tanti vergognosi quanto grotteschi tentativi di occultare la verità, che cosa si riesce a comprendere delle dinamiche di questa triste vicenda?

Nel giro di qualche settimana si è passati dall’incidente d’auto (evidentemente poco compatibile con i segni di tortura trovati sul corpo) alla pista omosessuale (“ragioni private”), a quella della droga, alla vendetta tra spie, alla criminalità comune, fino al traffico di opere d’arte. La versione più incredibile è, a mio avviso, quella della banda di criminali comuni, a quanto pare specializzati in rapimenti di stranieri, con l'abitudine di travestirsi da membri delle forze di sicurezza, tutti e 5 morti in un conflitto a fuoco, anche se i colpi li avevano casualmente raggiunti alla nuca. Il tutto completato dalla messinscena dei documenti di Giulio fotografati su un piatto d'argento (documenti che i sedicenti malviventi avrebbero conservato per settimane, pronti per essere ritrovati). Il regime egiziano, oltre a diffondere in modo ufficiale e semi-ufficiale versioni poco credibili dell'accaduto, da un lato ha preso ad accusare gli attivisti e i social media egiziani di disseminare bugie che creano inimicizie all’Egitto. Dall'altro, a offrire una collaborazione incompleta o, peggio, a fare finta di collaborare con gli investigatori italiani mettendo a disposizione dossier carenti delle informazioni più importanti.

Su quel che è successo davvero, non abbiamo certezze, o meglio non abbiamo prove. Tuttavia, le circostanze e la data della scomparsa (il quinto anniversario della “rivoluzione del 25 gennaio” 2011, con tutti i precedenti segnati da picchi della repressione), i metodi di tortura cui è stato sottoposto (esattamente gli stessi usati dagli apparati di sicurezza in un gran numero di casi), la stessa indisponibilità a collaborare nella ricerca della verità, l’assegnazione iniziale delle indagini a un funzionario di polizia condannato nel 2003 per un caso di morte sotto tortura (in seguito accusato di aver torturato, incriminato per false accuse e ucciso manifestanti nel 2011), l'analogo destino cui sono andati incontro due attivisti egiziani scomparsi negli stessi giorni di gennaio (ufficialmente morti durante uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza, ma il primo aveva le unghie strappate e ferite da arma da taglio, il secondo un foro di proiettile in testa e lividi su tutto il corpo) inducono fortemente a pensare che le forze di sicurezza egiziane siano responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni.

Non sappiamo, nel senso che non abbiamo elementi di prova da portare in giudizio. Ma sappiamo, perché ragioniamo, perché facciamo i collegamenti necessari, nello stesso senso in cui diceva di sapere Pier Paolo Pasolini a proposito delle drammatiche vicende italiane dei primi anni settanta.

 

Amnesty International è stata immediatamente in prima linea per mobilitare l’opinione pubblica, e numerose e significative sono certamente state le manifestazioni di solidarietà provenienti da tanti ambienti e settori della società civile, dal mondo dello sport a quello dello spettacolo. Vi aspettavate una risposta così forte e ampia?

L'idea di chiedere a tutti di esporre ovunque un'identica scritta nera su fondo giallo è nata in pochi minuti, e, nel giro di poco tempo, siamo stati letteralmente travolti dalle comunicazioni di adesioni, dall'invio di fotografie, dai messaggi. Cerchiamo di tenere aggiornato l'elenco delle adesioni: ci sono tante università, moltissimi comuni (tra cui quello di Albano Laziale), diverse regioni, molti quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive. La mobilitazione ha anche rapidamente superato i confini italiani: hanno fatto un bel lavoro, ad esempio, nell'Università di Cambridge, ma abbiamo ricevuto fotografie di classi di studenti di scuole e università da molti paesi: credo che il più distante sia stato l'Australia, con fotografie da Sidney davanti al Teatro dell'Opera che è un po' come il Colosseo per noi.

Infine, è molto incoraggiante la risposta proveniente dal mondo arabo e dallo stesso Egitto. Soprattutto sui social media la richiesta di verità è presente. Al Cairo, in una via importante, che porta a Piazza Tahrir, c'è un murale con le immagini dei martiri della repressione: a questi, tutti egiziani, è stato aggiunto il ritratto di Giulio Regeni. E girano anche magliette con la sua foto e la scritta Uno di noi”. E, richiamando quanto detto a proposito del carattere non isolato del suo caso, e del gran numero di vittime egiziane, non potrebbero essere usate parole più vere.

E non sono certo mancate le risposte istituzionali, sicuramente incoraggiate dalla pressione congiunta dell'opinione pubblica e degli organi di informazione.

 

Ma la campagna di Amnesty International non si ferma certo qui. Quali altre iniziative potrebbero essere portate avanti, a livello internazionale per fare luce e per fare giustizia?

Per prima cosa, chiediamo al governo italiano di evitare sbrigative ricuciture sul piano diplomatico. Il nuovo ambasciatore (perché dopo il richiamo c'è stato un avvicendamento) non dovrebbe assolutamente tornare al Cairo fino a che le cose non saranno cambiate significativamente.

Riteniamo poi che, oltre a dichiarare il paese “non sicuro” per i nostri cittadini (azione che potrebbe essere considerata come una forma di boicottaggio del turismo), siano sospesi tutti i trasferimenti di armi.* Nel 2013 l'Unione europea ha previsto una sospensione dei trasferimenti di armi all'Egitto dopo che, nell'agosto dello stesso anno, centinaia di manifestanti erano stati uccisi. Ma 12 stati dell'Unione europea su 28 sono rimasti, però, tra i principali fornitori di armi ed equipaggiamento di polizia all'Egitto, e tra questi 12 stati c'è anche l'Italia che, insieme a Germania e Regno Unito, ha inviato all'Egitto anche tecnologia e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza indirizzata, con ogni probabilità, contro il dissenso pacifico. Ebbene, tutto questo deve cessare, innanzitutto da parte italiana, ma possibilmente da parte di tutti gli stati europei. Perché, se l'Europa risponde in ordine sparso, l'Egitto può tranquillamente ignorare le eventuali sanzioni italiane (tanto le armi continuerebbero ad arrivare da altri stati europei esportatori).

C'è poi, un capitolo più strettamente giuridico. L'Egitto ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, nel 1986, per cui, in base all’art. 30, l’Italia, dopo avere seguito preliminarmente la via del negoziato per risolvere la controversia con l'Egitto, seguito da un tentativo di arbitrato, potrebbe infine presentare un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di Giustizia.

Infine, c'è il discorso relativo a quanto si potrebbe fare nell'ambito della giustizia penale o civile italiana per affermare la responsabilità civile dello Stato egiziano o quella penale degli individui colpevoli di tortura. La prima possibilità - adire le corti italiane per chiedere la condanna dell’Egitto al risarcimento dei danni causati - non incontra più, se la giurisprudenza Ferrini della Corte di Cassazione verrà confermata, l'ostacolo costituito dall’immunità dello Stato laddove si sia in presenza di crimini internazionali o gravi violazioni dei diritti umani. È evidentemente molto difficile che si possano raccogliere le prove necessarie a sostenere la richiesta di risarcimento.

Quanto alla responsabilità penale degli individui, la Procura di Roma ha aperto un'indagine e qualche giorno fa inoltrato per via diplomatica una rogatoria internazionale. L'ipotesi è di affermare la giurisdizione italiana sulla base del criterio giurisdizionale della nazionalità passiva (o della vittima). Anche in questo caso rimane il fatto che, per processare qualcuno, occorrono prove e la mancanza di collaborazione dell'Egitto rischia di essere paralizzante da questo punto di vista.

C’è da aggiungere poi che, anche nell'ipotesi che l’indagine fosse coronata da successo e si riuscisse ad individuare e rinviare a giudizio i responsabili, questi non potrebbero comunque essere giudicati e condannati per tortura (nella forma più aggravata della tortura seguita dalla morte della vittima), ma per il solo reato di omicidio aggravato. Perché l'Italia non ha ancora riconosciuto il reato di tortura nel proprio codice penale, continuando infatti ad ostinarsi a non voler chiamare le cose con il loro nome.

In questo caso, si verrebbe a produrre una specie di bizzarro effetto collaterale: non poter punire per “tortura” neppure quando a essere torturato a morte è un nostro cittadino in un altro paese!

 

Roberto Fantini

(da Free Lance International Press, 4 giugno 2016)

 

 

* Secondo il diciassettesimo rapporto annuale dell'Unione Europea, nel 2014 l'Italia ha emesso 21 autorizzazioni per un valore di33,9 milioni di euro di attrezzature militari verso Egitto, di cui oltre 15 milioni di euro di armi leggere. Nel 2015, l'Italia ha inviato in Egitto 3.661 fucili e accessori per un valore di oltre 4 milioni di euro; 66 pistole o rivoltelle del valore di 26.520 euro insieme a 965.557 euro di parti ed accessori per pistole e rivoltelle. Nel 2016, l'Italia ha già registrato l'esportazione di 73.391 euro di pistole e rivoltelle all'Egitto. Secondo Privacy International, l'azienda italiana Hacking Team ha fornito ai servizi segreti egiziani sofisticate tecnologie di sorveglianza. L'azienda ha dichiarato che il trasferimento è stato autorizzato dal governo italiano.


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