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Alessandra Borsetti Venier: Per Michael Goldberg, il “rinascimentale”
Michael Goldberg
Michael Goldberg 
16 Gennaio 2008
 

Qualche giorno fa ho ricevuto da New York una e-mail dall’amico e grande artista Lucio Pozzi. Nell’oggetto del messaggio soltanto un nome, Michael Goldberg. Immediatamente ho capito che si trattava di una comunicazione tragica. E ho letto:

 

Mike era il mio grande amico, mentore, fratello maggiore. Con tocco delicato, quasi timido, sapeva come trasformare in mito ogni momento della vita. Le sue magnifiche esagerazioni ed esuberanza nascondevano un'attenzione delicata e sollecita.

Era necessario un mucchio di tempo per camminare un paio di isolati con lui su Prince Street perché si fermava di continuo per parlare con le innumerevoli persone che conosceva, ricordandosi di chiedere a ciascuna come stava la madre, se il mal di schiena era diminuito, com’era andata la mostra in un centro culturale del New Jersey.
Mi autoinvitavo sovente per cena da lui e Lynn: cibo sempre eccezionale e preso molto sul serio, condito anche con le interfrecciate critiche dei cuochi. Che ci fossero altri ospiti o no, la conversazione era sempre ricca. Mike ci aggiungeva a volte giudizi smoderati su certi artisti o persone della nostra società. Non riusciva a tollerare il conformismo e l’inautenticità, specialmente in arte.

Una volta mi disse che beveva così tanto perché disperatamente annoiato dalla piccolezza delle cose nelle quali ci disperdiamo. Comunque, dava a tutti la sua più generosa attenzione. Ma quando gli capitava d’incontrare un evento o una persona che possedevano freschezza, lì gioiva senza retorica. Il suo mezzo sorriso dietro la maschera del viso indicava quanto ne era contento.

La sua grossa testa racchiudeva le memorie di una vita lunga e variegata, di oscurità e luce estreme, della quale non parlava molto, probabilmente per timore di imporla agli altri. Come lui desidera che non sia aggiunto peso al passare della vita, noi continuiamo con un sorriso. Lucio Pozzi

 

Ho cercato notizie su Google. In Italia non se ne sapeva ancora niente ma poi ho trovato: «New York, 4 gennaio - (Adnkronos) - L'artista americano Michael Goldberg, uno dei più noti pittori della cosiddetta ''seconda generazione dell'Astrattismo'', è morto a New York all'età di 83 anni. È stato colto da un infarto mentre si trovava al lavoro nel suo celeberrimo studio di Bowery Street, ha precisato la moglie, l'artista Lynn Umlauf, al ‘New York Times’, che ha pubblicato oggi la notizia della scomparsa avvenuta domenica scorsa».

Ancora un vuoto, ho pensato con amarezza, “quel vuoto”…

Eppure, era il suo “mezzo” sorriso che mi tornava subito in mente e i suoi occhi brillanti attenti a tutto, contemporaneamente. L’avevo conosciuto nel 2002 quando con il gallerista Roberto Peccolo andammo a trovarlo nella sua casa in Toscana vicino a Siena. Avevo pubblicato un suo libro molto particolare nella collana di libri d’artista “Pittura e Memoria” raccogliendo vari suoi testi e lezioni sulla pittura e sul fare arte fin dagli anni settanta a New York. Appena arrivati al casolare tra le colline senesi, ci venne incontro la moglie Lynn, mentre Michael ci faceva cenni dal loggiato. Un incontro “semplice” senza formalità, anzi, immediatamente affettuoso. Il libro gli piacque moltissimo e subito si mise a firmare le copie che io gli porgevo sul piano di marmo del tavolo di cucina tra cesti di frutta e bicchieri di vino, che mi preoccupavano alquanto per la vicinanza alle preziose copie. Gli chiesi come facesse a lavorare lontano dal suo studio di New York… sapevo che gli era stato ceduto dall’amico Mark Rothko quando negli anni Cinquanta era stato tra gli artisti che aveva partecipato attivamente alla nascita dell'espressionismo astratto. Allora mi invitò, quasi timidamente e con gentilezza squisita, a visitare il suo studio nel grande casolare. Dopo aver superato stanze piene di sculture sospese di Lynn e quadri suoi che, come sciabolate di colori, vivevano nella penombra illuminati come di luce propria, arrivammo in una stanza enorme strapiena di contenitori di colori e di pennelli di tutte le forme e dimensioni. Alle pareti quadri in lavorazione: alcune serie di piccoli, vicinissimi tra loro ma dai colori completamente diversi, altri invece molto grandi attraversati dalle sferzate materiche della spatola.

Mi confidò che aveva trovato in tutta la sua vita una sola risposta, e molto egoistica, al suo fare pittura: «Vedo la pittura come una straordinaria attività elitaria, che ha altrettanta importanza, eccetto che per dei privilegiati fortunati, di una breve pioggerella estiva». E che «non lo interessava la richiesta e l’economia del nuovo che cerca sempre più qualcosa che sembri alla moda, ma piuttosto qualcosa di onesto e sentito».

Gli dissi che mi sorprendeva l’energia fisica che la sua materia pittorica riusciva a sprigionare e che avrei voluto vederlo in azione.

«Spesso desidero aggredire la superficie con violenza…» mi rispose «a volte mi sembra di boxare con l’ombra, a volte invece il quadro risponde ai miei colpi… e, solo allora, comincia a esistere».

Quel giorno, egli era uno degli ultimi storici protagonisti ancora in vita della grande stagione della New York School, ma sentivo così presente la vitalità della sua passione! E capivo molto bene che non sarebbe mai diventato uno di quegli artisti che per fama e per mestiere diventano, prima o poi, sterili maestri di se stessi.

 

Riporto qui di seguito per i lettori di Tellusfolio il testo di una lezione che Goldberg  lesse all’Hunter College agli inizi degli anni Novanta e che ho inserito nel libro Michael Goldberg, Anima - Soul, n. 4 collana di libri d’artista “Pittura e Memoria” a cura di Roberto Peccolo, pubblicato dalla mia casa editrice Morgana Edizioni nel 2002.

 

Alessandra Borsetti Venier

  

  

IL TEMPO E L'EPOCA

 

Parafrasando San Giovanni, dirò che essendo la vita disordinata, e spesso noiosa, l’arte quando è al massimo  livello porta un qualche ordine nel caos. Per illuminare il macrocosmo della natura dell’arte, mi indirizzerò al microcosmo dell’arte americana nel periodo immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. Geograficamente, New York City.

L’arte non ha un diretto valore sociale, né uno recuperabile e capire non è necessariamente una virtù. Il contenuto delle opere d’arte non è mai la somma dell’intelletto che vi viene pompato dentro, e, se mai, è vero l’opposto. Ciònonostante, una accentuazione delle opere autonome è di per se stessa di natura socio-politica. L’idea che ci siano problemi più importanti in un momento specifico sembra sempre essere guidata dalla critica a posteriori. Questa critica descrive il fare arte come una forma di risoluzione dei problemi - in altre parole, una strategia che supplisce o sostituisce il contenuto. Una specie di avanguardismo professionale, che trova i suoi alleati naturali dentro l’estrema destra politica, cioè il fascismo. Engels nel suo pezzo contro Duhring usa il sottotitolo “Sinistrismo infantile, un blocco legato alla destra”.

New York nel periodo subito dopo la Seconda guerra era orientata per l’arte, verso le mode europee. Se uno avesse potuto scartare i nostri regionalisti fatti in casa, i realisti socialisti, i pittori “di genere”, avrebbe potuto dire che nell’avanguardia a New York la moda prevalente era una forma di surrealismo o di “autonomismo”. Un gran numero di artisti surrealisti francesi passò gli anni di guerra negli Stati Uniti - e il gran sacerdote, il capo, era il portavoce del movimento surrealista, André  Breton.

Questo gruppo, Ernst, Tanguy, Seligman, Matta, Gorky (che era stato profondamente toccato dal Surrealismo), Stuart-Davis, John Graham, fu strumentale nel trasmettere informazione ai giovani artisti americani, così come lo fu Robert Motherwell, lui stesso un giovane pittore e amico di David Hare e Roberto Matta.

Ora, tutto questo esisteva in un vuoto peculiare: non essendoci mai stato, in questo paese, un sistema di gallerie o di mecenatismo capace o desideroso di sostenere l’arte astratta contemporanea; esistevano a New York, in questo periodo, al massimo cinque o sei gallerie che tentassero mostre contemporanee. Un collezionista americano serio avrebbe trascurato New York per andare in Europa a cercare Picasso e Matisse, oppure Buffet e Afro. La situazione europea era invece tradizionalmente portata ad aiutare l’arte e con la prima mostra il gallerista, per contratto, comprava tutta o una parte della produzione annuale dell’artista.

Penso che come risultato della nostra schiacciante presenza nella Seconda guerra, si manifestasse un sentimento di poter fare tutto meglio, e una certa sfiducia provinciale per le mode straniere, una forma estrema di nazionalismo artistico. Non c’era nessuna o poca speranza di vendere, quello era un piccolo mondo ristretto dove gli Studi di tutti erano aperti - l’età e l’esperienza non contavano - solo l’interessamento e l’eccitazione.

Inoltre, molte poche donne facevano parte di questo primo gruppo. Quasi nessuno di questi pittori era stato nelle forze armate. Nel 1945, con la fine delle ostilità, un ampio gruppo di veterani di guerra apportarono, sostenuti dalle pensioni e dalla legge per i G. I., l’eccitazione di un grande entusiasmo e un sistema di supporto formato da quelli che erano in effetti discepoli. L’arte prodotta sembrava mirare a trovare una forma altamente personale - quasi che questa fosse sinonimo di contenuto. Arte come metafora.

Oltre a Picasso, Matisse e il Surrealismo, gli artisti guardavano al primo Kandinski, a Mondrian. Le due influenze americane più importanti di questo periodo erano Pollock e De Kooning. Pollock per il suo modo di andare oltre l’espressionismo, e De Kooning oltre il cubismo. Sempre in questo tempo c’era una inter-relazione tra giovani pittori e giovani poeti, sorprendente per l’America; anche i poeti erano stati in guerra e provavano lo stesso bisogno di recuperare il tempo perduto. In questa seconda fase, un numero sorprendentemente alto di giovani donne entrò alla pari, e attivamente, nella situazione.

L’arte visuale, quasi per sua natura, ha una derivazione circolare; uno sembra avanzare guardando indietro - a Courbet e Manet, a Piero della Francesca e a Masaccio, a Giotto e Duccio. Cambiano le necessità, le priorità vanno e vengono, ma il contenuto o la realtà sembrano ancora interessare la condizione umana. Per esempio, se uno può supporre che l’arte visuale, nella prima metà del XIV secolo, si occupasse della realtà per mezzo di concezioni sperimentali (Brunelleschi, Donatello, Masaccio, ecc.) come la percezione visuale, la prospettiva, la luce naturale, possiamo scoprire quasi le stesse preoccupazioni nel Minimalismo.

Quanto al periodo di cui sto parlando, per me le caratteristiche distintive erano l’energia, il cameratismo, la condivisione e la sorprendente mancanza di soldi e di sostegno. L’unica esperienza americana vagamente simile fu durante il periodo 1935 - ’40, e il Progetto Federale per le arti della W.P.A. - che implicava un largo aiuto governativo per le arti - il primo nella storia degli Stati Uniti.

La maggioranza della cosiddetta prima generazione di artisti astratti americani lavorarono e furono sostenuti da questo progetto. La natura eroica di questo periodo, a me, adesso, sembra molto romantica. La straordinaria mancanza di aiuti e di soldi, la scarsità di posti ove esporre, spinsero un mondo molto chiuso verso una vita piena di passioni. Riconciliare le pretese del realismo, del contenuto sociale, del simbolismo, con un puro equilibrio formale, sembrava la cosa più eccitante dell’universo.

Oggi si presenta una situazione dell’arte che è completamente, emozionalmente, diversa. A New York ci sono più di seicento gallerie, che espongono l’intero spettro del lavoro contemporaneo. Abbiamo critici e collezionisti che desiderano intensamente essere attivi partecipanti della esperienza artistica. E, di nuovo, da parte degli artisti un intenso guardare all’indietro per poter andare avanti.

 

Michael Goldberg


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