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Marisa Cecchetti. “Troppo lontano per andarci e tornare” di Stefano Di Lauro
22 Gennaio 2020
 

Stefano Di Lauro

Troppo lontano per andarci e tornare

Exorma, 2019, pp. 348, € 16,50

 

Purtroppo si finisce col dare più importanza a ciò che divide che a ciò che unisce. A loro insaputa, gli uomini hanno più cose in comune di quanto non si pensi”. È la saggezza del comandante della Holy Stream -che con i suoi viaggi ne ha conosciuto di persone e mentalità- in una conversazione con gli originali passeggeri del suo piroscafo mercantile, una prima nave a vapore partita il 31 dicembre 1899 da Le Havre e diretta a Buenos Aires in Argentina.

Questi passeggeri, che hanno trovato spazio nella stiva del mercantile con i loro carrozzoni e gli animali del circo, compresa una lupa ed uno scimpanzé, costituiscono invece un gruppo-famiglia che include ogni tipo di diversità, le valorizza, condividendo l’amore comune per la bellezza, la musica, la letteratura, la riflessione che diventa pensiero filosofico, in un intreccio continuo tra vita e arte.

Sono immuni dal pregiudizio, capaci di ironizzare su se stessi, convinti che “far dormire il talento è come buttar via il pane appena sfornato” e che la vita abbia lo scopo di “rendere perfetto quel che si ama”.

Li troviamo in partenza, costretti da un calo pauroso di spettatori, dopo aver visto splendori e fortuna per anni spostandosi in terra di Francia con carrozzoni e tendone, lo chapiteau con ingresso a forma di enorme bocca di balena, in giro per paesi fuori Parigi: “Lo chapitou del Diable era il simulacro d’un veliero reduce da chissà quali immaginose burrasche e divenuto la tana d’un cetaceo. Sotto l’albero di bompresso, infatti, l’ingresso al padiglione era concepito come la bocca spalancata d’una balena, dalla cui mascella calava un folto sipario di fanoni”.

La compagnia ha un nome, Au Diable Vauvert, che suggerisce mete indefinite, offre personaggi e numeri di eccezione, da una gigantessa, Mardea, che appare in scena come una sirena bicaudata, a Ailes, la esile giovanetta nata senza braccia; senza escludere la lupa Antoniette, feroce in scena contro Celestin tanto da far urlare il pubblico, in realtà mansueta e addirittura capace di allattare una nidiata di gattini orfani, con una forzata presenza di latte. Suonano strumenti musicali che affascinano: “il suono antico della ghironda, la tromba suonata dalla gigantessa, il viscerale bandoneon, ed hanno la voce immensa di Lou”.

La narrazione procede seguendo in parallelo la navigazione dell’Holy Stream e recuperando al contempo la storia dei circensi, svelando percorsi di vita intensi, talmente caratterizzati dal dolore e dalla diversità, da far sì che il mondo del circo diventi luogo di realizzazione, con la sua apertura verso ogni novità e col desiderio di stupire. Le loro disquisizioni -nelle riunioni del tempo libero- abbracciano il senso della vita e della morte e danno alla narrazione un ritmo lento, del resto in parallelo a quello della navigazione.

L’oceano e il Au Diable Vauvert hanno in comune l’evocazione e la presenza della balena, in una presenza costante di Melville ma anche con rimando a Lorenzini: a Moby Dick e Pinocchio. La balena compare -morta e impagliata- già nella vita di Nounours, il giovane suonatore di bandoneon, ma anche altrove, grandiosa, terribile, simbolo del male in agguato, col fascino tuttavia di tutto ciò che è terrificante: Di Lauro, “autore, regista e compositore, si definisce un mitonauta”.

Il titolo, Troppo lontano per andarci e tornare, a lettura conclusa, rimane una sintesi di pensiero ed insieme un riferimento alla concretezza di eventi che si verificano nel corso della navigazione, con un epilogo che oscilla tra realtà e sogno, aperto alla interpretazione del lettore e non privo di poesia.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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