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Anna Lanzetta. Uno straordinario reperto: La Sfinge di Vulci
05 Settembre 2019
 

Il Museo Archeologico “Giovannangelo Camporeale” di Massa Marittima (Gr) offre in visione al pubblico un reperto archeologico fantastico, degno, per raffinatezza, di ammirazione. Un unico reperto, una sfinge etrusca risalente al VI secolo a.C., ritrovata nel 2012, durante una campagna di scavo, proveniente dalla necropoli dell’Osteria a Vulci (Vt), uno dei più importanti centri dell’Etruria. La Sfinge era collocata nella tomba 14, detta “Tomba della Sfinge”. Il dromos, un lungo corridoio di 28 metri, che conduceva all’ingresso del monumentale ipogeo funerario, da cui si accedeva al vestibolo e alle camere funerarie, databili in un arco di tempo compreso tra la metà del VI e l'inizio del V sec. a.C., testimoniava con la sua grandezza, l’appartenenza della tomba a una nobile famiglia che l’aveva destinata alla sepoltura dei suoi membri.

A vederla, la Sfinge, animale mitologico, si ammanta di mistero e di curiosità, che affascinano il visitatore ed è bellissima nella perfetta fattura dove l’umano e il fantastico si incrociano in una perfezione che si acuisce nell’acconciatura. Si solleva la tenda che la cela e si viene introdotti in un mondo antico e leggendario. La Sfinge di Vulci, statua funeraria, scolpita nel nenfro, roccia tufacea di origine vulcanica, ha testa di donna, corpo di leone, coda di serpente e ali d’aquila. Un tempo teneva lontani dai morti gli spiriti maligni ma poi ha assunto il ruolo di “guardiana” per proteggere i defunti e accompagnarli nell’Aldilà.

L’esposizione è accompagnata da pannelli grafici e informativi in cui è raccontato il contesto del ritrovamento, il rituale funebre e approfondimenti sull’origine e il significato della Sfinge. «In seguito ad un’attenta opera di pulitura delle superfici, sono state evidenziate tracce di pigmento di colore ocra rossa, ad occhio nudo non sempre percettibili ed in contrasto con il colore grigio della ruvida pietra vulcanica in cui è stata scolpita l'immagine», racconta l'archeologo della società Mastarna Carlo Casi. «Le tracce di pigmento sono riconoscibili in corrispondenza del collo, sotto il mento e accanto all'occhio destro. La prosecuzione dello studio consentirà di stabilire la relazione con la pratica, assai frequente nel mondo antico, di ricoprire le superfici delle sculture e degli apparati decorativi architettonici con colori a forti tinte, oggi in gran parte scomparsi».

«Questa è una raffinata testimonianza», spiega ancora il direttore scientifico di Fondazione Vulci, Carlo Casi, «di quella che fu una tradizione propria della produzione artistica vulcente del VI secolo a.C. In questo periodo botteghe vulcenti scolpirono sfingi, leoni, pantere, arieti, centauri e mostri marini, vigili guardiani della quiete eterna dei morti. Ma già intorno al 520 a.C. la produzione di queste statue venne a cessare, forse nel tentativo di porre un limite alle ostentazioni di lusso ormai ritenute inopportune».

Tutto il Museo è degno di una visita, perché ogni reperto parla di un passato che reca le orme della storia che un accurato lavoro rende tangibili.

La mostra, dal 1° settembre al 3 novembre, rimane aperta al pubblico, dal martedì alla domenica, dalle ore 11 alle ore 13 e dalle 15 alle 18. L’accesso è compreso nel prezzo del biglietto del Museo Archeologico Etrusco Giovannangelo Camporeale. Info: 0566906366, email: museimassam@coopzoe.it.

 

Anna Lanzetta


 
 
 
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