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Maria Lanciotti. La memoria di chi c’era – 2
31 Luglio 2018
 

Prima dell’era delle telecomunicazioni, e dei social network che rendono tutto il mondo una piazza virtuale dove ognuno può connettersi e dire la sua, si comunicava da collina a collina.

Ogni famiglia aveva il suo codice, e per avviare una conversazione lanciava il richiamo inconfondibile, una sorta di prefisso che faceva drizzare le orecchie dall’altra parte: “Auuuuuu” a cui faceva eco lo stesso ululato privato: “Auuuuuu”. Stabilito il contatto, si entrava in sintonia. E si andava avanti finché durava il fiato. Non si pagava bolletta, non si verificavano guasti alla linea, non si producevano danni all’organismo con l’abuso di smartphone e computer. E se si era intercettati per tutto il circondario, e le notizie si propagavano nei paesi vicini per passaparola, per nessuno era un dispiacere ma una forma di comunicazione allargata – rete sociale di vecchio stampo – per cui tutti sapevano i fatti di tutti e vi partecipavano come fossero di casa.

 

Anche la morte una volta era di casa. Se ne parlava con naturalezza anche in presenza di bambini, che ne venivano presto a contatto. Un evento, sempre atteso e presente, che faceva paura e affascinava con le tante storie che vi si ricamavano sopra. C’erano i sogni, legati alla morte, e l’interpretazione ratificata dall’uso popolare.

Sognare di perdere i denti con dolore significava pericolo per le persone care, e per semplici conoscenti se la caduta era indolore. Se un parente ti veniva in sogno battendo i denti dal freddo, voleva dire che ti chiedeva di essere scaldato con una santa messa. Se il defunto portava uno scialle scuro annunciava imminente dipartita, e nuova nascita se lo scialle era colorato. Se si sognava un bambino inseguito da un cane nero significava che correva pericolo d’infezioni, e se il cane era bianco che avrebbe avuto una sana dentatura. E se si sognava la cattiva morte che ti coglie impreparato, c'erano pronti gli scongiuri: Madonnina mia beata, portame in braccio e non me lassa’, manda l’angelo a avvisa’ quando me vieni a ripiglia’.

 

Allora si moriva col palliativo di una medicina empirica e il conforto religioso, le visite ininterrotte dei vicini e la pazienza dei congiunti che non ti mettevano fretta e nemmeno tentavano di trattenerti.

Sul letto di morte ognuno faceva in tempo a esprimere le ultime volontà, a discolparsi o a incolpare altri, a chiarificare vecchi episodi, almeno a detta dei presenti alla dipartita:

Ha detto Luigetto prima di spirare che non ha mai torto un capello alla moglie, non ha mai bastonato i figli e ha lavorato sempre come un mulo, e questo vuole che sia scritto sulla sua lapide”.

Ha detto Agnese che non è stata lei a dare fuoco alla proprietà del cognato, ma il povero Peppepocio che voleva quella terra, e glielo confessò in punto di morte ma facendole giurare di rivelarlo solo quando lei fosse stata con un piede nella fossa”.

Ha detto Felice che Assuntina gli ha rubato sette galline e ha sempre negato, e adesso per riparare gli deve far dire sette messe cantate o lui le va in sogno e la ricopre per sette notti di penne, che significano sventura”.

Storie, povere storie che arricchivano povere vite e aiutavano a vincere paure ataviche, alimentate dal fatalismo che tutto accetta senza discutere.

 

Vidi la Morte per la prima volta nella casa di una famiglia arrivata da poco dall’Abruzzo, con il gregge e tanti figli. Si chiamava Saturnino ed era morto a tre mesi di polmonite. Il suo corpicino si perdeva quasi nel letto dei genitori che lo vegliavano spauriti, vestito di bianco e con una frangettina scura che usciva dalla cuffietta.

La gente del vicinato osservava commossa la scena, e noi ragazzini ce ne stavamo zitti e tremanti appiattiti contro la parete; nessuno c’impediva di entrare, anzi ci spingevano dentro con l’ordine di recitare le preghiere assieme agli altri.

In occasione di una morte prematura i grandi ci trattavano con più tenerezza, impressionati dalla disgrazia altrui. E noi approfittavamo della circostanza per fare qualche piccola richiesta, ottenendo qualche spicciolo da spendere dal tabaccaio che vendeva pure dolciumi.

Ma quando il prete arrivava per la benedizione eravamo tutti lì a sciamargli attorno per assistere alla cerimonia, che poi ripetevamo nei nostri giochi.

Quando veniva a mancare una persona anziana non c’era tutta quella tristezza che riempiva la stanza e schiacciava il cuore; qualche lacrima si piangeva pure, ma con dolcezza.

Si diventava tutti più caritatevoli, quando la morte ti passava accanto.

Quando se ne andò Peppina, a più di ottant’anni, il vicinato si riunì per la veglia e parlò della defunta come della persona più buona di questa terra, quando era risaputo che era la più scorbutica del quartiere; litigava con tutti e prendeva a sassate chiunque allungasse le mani per cogliere nella sua proprietà un frutto o un fiore.

E quando morì Carminuccio, che non aveva mai spartito una parola con nessuno e prendeva a fucilate i gatti che si avventuravano nel suo terreno recintato di filo spinato, tutti pregarono affinché trovasse in cielo l’accoglienza che a tutti egli aveva negato.

 

A noi ragazzini la morte ci emozionava sempre, con il contorno di riti che l’accompagnava, ma mentre potevamo assistere a questo tipo di avvenimento ci era assolutamente precluso l’evento della nascita. Qualche volta però riuscivamo ad accostarci più del consentito, come accadde con Irmetta, una giovane sposina che abitava nella casa accanto alla nostra.

Irmetta era magra magra e con un pancione ogni giorno più grosso, e si diceva che avesse mangiato troppo cocomero durante l’estate. Quella mattina ci fu un insolito viavai a casa di Irmetta e a noi fu proibito di giocare nei paraggi.

Con una difficile manovra di accostamento, approfittando dell’erba alta e di qualche albero rigoglioso, ci avvicinammo al luogo del mistero. Porte e finestre chiuse, e solo una finestrella con le persiane accostate da dove provenivano voci e lamenti. Le donne, affaccendate alla fontana, lavavano panni e riempivano pentole d’acqua. Verso mezzogiorno arrivò una signora con un borsone a fiori e sparì dentro la casa.

Dopo un po’ si udì gridare: “È nata, è nata, andate a chiamare il padre!”, e il marito di Irmetta arrivò trafelato in bicicletta dal cantiere dove lavorava, lì vicino, passò fra tutti come dovesse arrivare primo al traguardo, lasciò cadere la bicicletta ed entrò di corsa.

Più tardi fecero entrare anche noi, ordinatamente e in punta di piedi, e trovammo Irmetta tutta bella pettinata con la pupa in braccio, coperta di pizzi e merletti.

C’era un profumo di borotalco Felce Azzurra, lo stesso che usava mamma per incipriarmi dopo il bagno, e di brodo di gallina che veniva dal cucinino. E un odore buono e sconosciuto che veniva dal letto di Irmetta.

 

Si stava sempre all’erta, quando si vedeva un pancione in giro, che sarebbe sparito con l’arrivo del neonato. Si aspettava il momento, attenti a non farci scappare l’occasione di essere testimoni di un avvenimento impressionante, specialmente quando si sentiva gridare: “È maschio, è maschio!”.

Benché piccoli, avevamo capito che la nascita era un segreto di donne da cui erano esclusi i papà, che venivamo chiamati di corsa solo a cose fatte.

 

Mio padre non si lasciò allontanare, anche perché non c’era nessuno che potesse farlo, e aiutò mia madre a partorire il loro primo figlio. Era il 1929, il 18 agosto. Fervevano i lavori in campagna e i miei genitori lavoravano affiancati sotto il sole rovente, con il fiasco dell’acqua e il pane da mangiare con i fichi. E mia madre sente che il tempo è arrivato, non lo dice subito, non interrompe il lavoro, fino a che non si piega in due e mio padre se ne accorge e accorre.

So poco di questa cosa, solo qualche parola carpita durante un momento di confidenza di mia madre con una sua vicina. Ma è così che immagino quella nascita, un uomo e una donna che lottano insieme e un bambino che viene raccolto da mani capaci di tutto, anche di asciugare lacrime.

Chissà come fecero a tornare in paese. Forse mia madre e il bambino salirono sul somarello tirato da mio padre, altri mezzi non c’erano. Ma si sapeva che c’erano gli aeroplani, che in tempo di guerra trasportavano bombe.

 

Maria Lanciotti


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