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Maria Paola Forlani. Restauro Musei 2016 
La “Rivoluzione del Museo” tra Eclissi e Rinascita della Cultura?
11 Maggio 2016
 

La religione dell’arte ha i suoi proseliti e i suoi luoghi di culto: i musei. Destinati a ospitare la bellezza, essi stessi divengono spesso belli ancor più delle opere che ospitano, non solo per l’insieme delle collezioni, ma per il connubio delle stesse con l’architettura, la luce, lo spazio, la decorazione e l’atmosfera dell’ambiente.

Questa capacità dominante dell’architettura o comunque del luogo è stata particolarmente percepita nell’epoca contemporanea, dando luogo alla costruzione di edifici nei quali il progetto architettonico prevale sulle opere che contiene.

L’esempio culminante tra molti è il Museo Guggenhem di Bilbao di Frank Gehry.

Ma tra i musei del passato (la cui qualità architettonica peraltro è sempre rilevante) ve ne sono alcuni, non pochi, il cui fascino non proviene solo dall’architettura o solo dalle opere, bensì dal felice rapporto del contenitore e del contenuto. L’importanza delle modalità espositive è sempre stata sentita e lo è sempre di più.

Sta anzi divenendo una disciplina a sé stante e nel visitare una esposizione non si giudica più soltanto le opere esposte, ma anche, talvolta soprattutto, il modo in cui sono esposte. Autore (o autori), regia (o sceneggiatura) e scenografia assumono quindi pesi quasi equivalenti, in una esposizione o un museo come in uno spettacolo teatrale.

Luoghi di contemplazione, i musei risentono dell’aura mistica di luoghi in qualche modo sacri: cattedrali dell’arte, monasteri di bellezza. E nei casi frequenti in cui essi furono dapprima abitazioni di collezionisti o di artisti riescono a documentarci anche una condizione di vita perduta, assumendo uno straordinario significato storico ed evocativo che sarebbe pressoché impossibile ricostruire. Il museo spesso, è stato detto, è l’orfanotrofio delle opere d’arte, nate per altre destinazioni, ed esse sopravvissute e quindi “ricoverate” per la loro protezione e visibilità. Malgrado questo traumatico cambiamento di vita, talora esse riescono a ristabilire nel nuovo ambiente collettivo e onnivalente un armonioso quanto miracoloso rapporto e a ricostruire l’aura del luogo d’origine palazzo, chiesa, casa, atelier e così via. Non a caso, spesso erano e sono edifici storici a venire adibiti a musei.

Il recente decreto dei musei ha riorganizzato il sistema museale italiano dal punto di vista amministrativo e giuridico con la costituzione di venti musei autonomi e di una rete di diciassette Poli regionali che dovrà favorire il dialogo continuo fra le diverse realtà museali pubbliche e private del territorio, ma ha affondato le radici in problemi complessi e di lunga data. Una riforma che ha suscitato non poche reazioni di perplessità, quando non di aperta contrarietà sia da parte di esperti della cultura italiana sia di alcune componenti degli stessi apparati ministeriali.

Le “antiche” e diverse questioni riguardano innanzitutto il ruolo, la funzione e lo status effettivo dell’istituto museale, la sua autonomia scientifica e formativa, in un momento di debolezza e cambiamento del concetto tradizionale di cultura e delle categorie culturali. Nonché in un contesto di risorse drasticamente ridotte, personale scientifico insufficiente, terziarizzazione spinta non solo dei servizi ma anche della produzione culturale.

Ѐ necessaria una nuova visione. Visione in cui istituzioni, università e musei dovranno innanzi tutto formarsi e formare per poter affrontare una realtà in cui sono richieste figure diversamente formate da quelle di oggi, in cui vanno declinati e focalizzati modi specifici di ricerca poi condivisi tra Paesi diversi, in allineamento con le tendenze che si stanno affermando nelle principali città europee anche in funzione di finanziamenti e progetti concreti.

Ma il convegno “La città dei musei. Le città della ricerca” ha risentito, nel dibattito e nelle relazioni, di tutte le ambiguità della nuova riforma e della pesante alleanza con il privato per il recupero di nuove risorse, auspicate dal ministro come ‘unica salvezza’ del patrimonio artistico. In realtà le sedicenti verità sui privati, spesso privi di finalità umane e di vera crescita, si scontrano con il metro della Costituzione. Visto l’articolo 9, e i suoi nessi con gli altri principi sui quali è stata fondata la Repubblica, ha spaccato in due la storia dell’arte, rivoluzionando il senso del patrimonio culturale. La Repubblica tutela il patrimonio per promuovere lo sviluppo della cultura attraverso la ricerca (art. 9): e questo serve al pieno sviluppo della persona umana, e alla realizzazione di una uguaglianza sostanziale (art. 3).

Oltre al significato universale del patrimonio, questo sistema di valori ne ha creato uno tipicamente nostro: il patrimonio appartiene a ogni cittadino – di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia – a titolo di sovranità, una sovranità che proprio il patrimonio rende visibile ed esercitabile. Il patrimonio ci fa nazione non per via di sangue, ma per via di cultura e, per così dire, iure soli: cioè attraverso l’appartenenza reciproca tra cittadini e territorio antropizzato. Perché questo altissimo progetto si attui è necessario, però, che il patrimonio culturale rimanga un luogo terzo, cioè un luogo sottratto alle leggi del mercato. Il patrimonio culturale non può essere messo al servizio del denaro perché è un luogo dei diritti fondamentali della persona. E perché deve produrre cittadini: non clienti, spettatori o sudditi. La conoscenza è l’unica medicina capace di curare, fermare, forse vincere questa epidemia di disumanizzazione. Nella nuova riforma Franceschini, il dominio dei privati è destabilizzante, i nuovi direttori come reali ‘dittatori’ senza nessun approccio reale con le sovrintendenze (ormai sparite), creano fantasmi nei collaboratori silenziosi, il più giovani privi di possibilità di entrare come veri protagonisti di una vera collaborazione o “ricerca” retribuita, ma restano sudditi senza possibilità di uno spiraglio di un lavoro in prospettiva.

I privati hanno creato, spesso, vere dispersioni di capitali e oltraggi architettonici ormai incurabili. Mi riferisco alle violenze strutturali della dimora del conte Vittorio Cini, in via Santo Stefano a Ferrara, che ha perduto i suoi contorni medioevali per la bramosia di ‘ipotetici’ acquirenti della diocesi che hanno trasformato un luogo di cultura e d’arte in un ambiguo ‘condominio’, mentre le biblioteche e la collezione d’arte sono scomparse…

 

Maria Paola Forlani


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