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Paolo Nespoli. L’astronauta milanese che sogna di andare sulla Luna
Paolo Nespoli
Paolo Nespoli 
13 Ottobre 2006
 
Smarrita nell’ineffabile vastità, la Terra, sotto, rotola nel cosmo profondo coi suoi magnifici disegni: continenti e oceani solcati da nubi, le macchie gialle dei deserti, le rughe dei monti e i ghiacci eterni, il verde delle foreste tropicali, l’oscurità dell’universo rotta dal balenio degli astri, una visione tale da cambiare per sempre nella propria anima le ragioni esistenziali, la nostalgia che con la meraviglia ti divora il cuore... Che cosa proverà Paolo Nespoli quando l’estate prossima, a bordo dello Shuttle con il ruolo di specialista di missione e in compagnia di altri cinque astronauti, si troverà a solcare le rotte dell’infinito? Un milanese nello spazio. Dal ‘91 al servizio dell’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, Paolo Nespoli è stato assegnato all’equipaggio del volo che nel 2007 porterà in orbita il Nodo 2, un modulo americano di connessione della Stazione Spaziale Internazionale.
Il curriculum di Nespoli, 49 anni, è, a dir poco, sensazionale: pilota, ha conseguito nel 1988, alla Polytechnic University of New York, il Bachelor of Science in Ingegneria Aerospaziale, nel 1989 il Master of Science in Aeronautica e Astronautica e l’anno successivo la Laurea in Ingegneria Meccanica all’Università degli Studi di Firenze. Da lì un’inarrestabile escalation d’incarichi di prestigio, responsabilità e funzioni sino a giungere allo Shuttle e all’affascinante avventura spaziale.
Fare l’astronauta: un desiderio che coltivava sin da bambino o qualcosa cresciuto dentro strada facendo?
«Un’idea nata da bambino, quando ho visto le immagini in bianco e nero della TV con gli astronauti balzellanti sulla Luna. Da grande ho deciso di ripigliare quel sogno e nel farlo mi hanno aiutato tutte le esperienze maturate, dall’interesse per la speleologia alla vita nell’esercito in cui sono stato per 6-7 anni, un periodo molto intenso in cui ho acquisito una serie di capacità e brevetti, cimentandomi e mettendomi a confronto con attività stressanti che dovevo imparare a superare. La vecchia idea di fare l’astronauta, in apparenza così strampalata, meritava di essere testata. Sono sempre stato uno cui piace trovare i propri limiti, sia fisici che mentali, e capire se questi sono veri o autoimposti. Fare cose strane, ardue e pericolose e capire che potevo farle bene è stato un modo per ampliare le mie conoscenze. Ero e sono ancora alla ricerca della mia frontiera».
Che cosa si aspetta dal suo viaggio nello spazio?
«Questo volo – durerà 12 giorni - è molto complesso e difficile: dobbiamo continuare la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Certo avremo un ruolo molto appariscente: su di noi saranno puntati tutti i riflettori, anche se ci sono migliaia di persone che lavorano intorno al progetto. In ogni caso andare nello spazio ha un senso per l’umanità, anzi più significati, il più semplice dei quali da capire è che nello spazio si trovano condizioni ambientali, come la microgravità, per compiere esperimenti altrimenti impossibili. Per quanto riguarda l’aspetto più immaginativo, direi che si tratta della continuità dell’esplorazione: le civiltà che ne hanno fatto uno dei loro pilastri di base sono quelle maggiormente evolutesi. Una risposta al motore interno che ci spinge ad espandere il conosciuto».
La Terra vista dallo spazio può regalare una prospettiva diversa e più ampia degli eventi del mondo?
«Le attività sullo Shuttle sono molto impegnative. Verso la fine, se tutto è andato bene, si può estendere la missione di un giorno. Allora, così mi è stato raccontato, tutti sono con il naso attaccato alle finestre. Il pianeta scorre, sotto, a vertiginosa velocità: della Terra spicca il blu e non si vedono i confini fra le varie nazioni. Però si scorgono bene gli strati dell’atmosfera e, dicono tutti, si rimane quasi scioccati nel notare come essa sia sottile. Allora si comprende quanto il pianeta sia fragile e che gli esseri umani dovrebbero lavorare tutti insieme per fare in modo che la Terra continui a esistere».
Da lassù cercherà con lo sguardo la sua città?
«Certamente. Questa è una cosa che faccio anche quando sono sull’aereo diretto verso l’Italia. M’incollo all’oblò e mi vengono in mente immagini e ricordi che rivivo con grande intensità e piacere. Se lo faccio adesso, volando in aereo, si figuri quando sarò nello spazio!»
Lei per lo più vive in America. Ha mai nostalgia di Milano?
«Mi trovo bene negli States - del resto per lavoro sono obbligato a dimorarvi - ma ritorno sempre volentieri qui. Io sono di Verano Brianza, in provincia di Milano, e, quando posso, vi torno, e ogni volta riscopro odori, sapori e colori che sono impressi nella mia mente, come cose primordiali stampatesi nel mio cervello».
Quali sono i luoghi di Milano che lei ama di più?
«Il Duomo, la Galleria, i Navigli, ma conservo anche tanti ricordi della Stazione Centrale dove sono passato innumerevoli volte».
Che cosa maggiormente le manca?
«Parlare in dialetto. Mi piace tornare al paese, rivedere gli amici e conversare nel nostro dialetto. Sì, questo mi manca moltissimo».
È duro l’addestramento cui sta sottoponendosi per affrontare la permanenza nello spazio?
«È una valutazione del tutto soggettiva: ciò che è duro per alcuni non è detto lo sia per altri. Non è una passeggiata, ma io mi diverto».
Dopo di questo, ha un nuovo sogno nel cassetto?
«Continuare a fare l’astronauta e - perché no? - andare sulla Luna».
Quando tornerà a Milano, che farà come prima cosa?
«Andrò a salutare i miei, i fratelli e le sorelle, nipoti, cugini e zii, e poi, sicuramente, organizzerò una cena con gli amici d’infanzia».
 
Alberto Figliolia

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