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Oscar Luigi Scalfaro 
di Lidia Menapace
29 Gennaio 2012
   

Essendo nati ambedue a pochi anni di distanza nella stessa piccola città, ci conoscevamo bene, Oscar Luigi Scalfaro e io; anzi conoscevo sua sorella, il futuro cognato, anzi la futura amatissima e presto scomparsa moglie era mia compagna di classe al liceo classico “Carlo Alberto” di Novara. Ho trascorso giorni in montagna a Riva in Valsesia con la sua famiglia d'origine. Non sono mai stata d'accordo con le sue posizioni di democristiano scelbiano, ma ho sempre riconosciuto la sua rigorosa onestà, l'impegno, e l'antifascismo.

Durante la Resistenza, Scalfaro era sostituto presso la Procura di Novara ed ebbe come collega un comunista col quale collaborò in magistratura con assoluta tranquillità: non gli si conosce quella tinta di anticomunismo viscerale che fu proprio di tanti cattolici. Come magistrato collaborò con la Resistenza riferendo notizie che poteva sentire negli interrogatori di detenuti politici, violando i “doveri” professionali per una più alta fedeltà a valori e principi di umanità.

Racconto un episodio significativo, che ho visto di persona. Nel colmo dell'inverno del 1944, una gelida mattina ancora al buio, un famoso giornalaio novarese appartenente a una dinastia di giornalai, i Miramonti, che gestivano in Piazza Erbe una edicola di quelle che si chiamavano parigine ed erano di ghisa e cilindriche, arriva con lo smilzo pacco dei giornali, appena prima che finisca il coprifuoco. In terra, vicino all'edicola, un ferito grave, che riesce a dire solo: "È stato Zurlo” e spira. Ma arriva subito addosso all'atterrito Miramonti una pattuglia della “squadraccia”, come veniva chiamata la Squadra politica della Questura. In gran confusione sia reale sia recitata il giornalaio dice di star male e che non ha mai visto una cosa simile e deve andare a casa a ricomporsi. Gli dicono di scomparire al più presto, e lui esegue di corsa, ma non va a casa, bensì all'orfanotrofio civico “Dominioni”, allora sede clandestina del Cln, anche perché ha due uscite. È diretto dalla Zia Rina, la maestra Rina Musso, al posto del marito, che è in Germania in campo di concentramento come mio padre. Dormo spesso da lei, per varie incombenze resistenziali che abbiamo insieme. Mostrando di sapere bene come stanno le cose il Miramonti racconta con affanno quel che ha visto e si chiede come fare a non farsi fucilare subito se accusa Zurlo e a non vergognarsi se lo lascia senza denuncia. La Zia Rina lo rifocilla e poi gli dice che il Cln ha un magistrato di fiducia e avvisa Scalfaro. Che arriva, si fa raccontare tutto e poi riunite alcune persone fidate consiglia al Miramonti di dire durante l'interrogatorio una frase simile a quella che ha sentito (si decide che dirà: «era davvero andato: ha detto: “è tutto azzurro” e poi è morto»). Dopo la fine della guerra si rifarà il processo e verrà dichiarato il vero, che avevamo sentito narrare. I fascisti aprono un fascicolo contro ignoti, tutto sta fermo fino alla Liberazione. Quando si instaura un Tribunale del popolo, Scalfaro accetta di fare il pubblico ministero, anche per dare legalità a una giuria popolare che durante il fascismo non esisteva. Così succede, Scalfaro chiede la pena di morte e inoltra subito la richiesta di grazia che Parri subito concede. Erano tempi difficili e le decisioni non erano lievi, ma con l'impegno e il coraggio di molti ce la siamo cavata. Grazie anche a Scalfaro.

 

Lidia Menapace


 
 
 
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