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L’ultimo saluto alla leonessa 
di Mauro Raimondi
05 Novembre 2011
 

È stata la prima donna appassionata di calcio a raccontarsi. Meritando pure, con il suo Tifosa e basta c’era una volta (Sedizioni, 2008), un premio speciale al Bancarella Sport, la massima manifestazione letteraria sportiva in Italia.

Donatella Evangelista ci ha lasciato a settembre. I lettori di questa rubrica l’avevano conosciuta nel febbraio scorso, quando venne recensito Pape Milan Aleppe (Sedizioni, 2010), un volume che raccoglie il meglio della letteratura dedicata al Milan (comprendente Alfonso Gatto, Luciano Bianciardi, Oreste del Buono, Primo Levi e molti altri grandi nomi). L’autore, Sergio Giuntini, autorevole membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Storia dello Sport, citò espressamente il libro di Donatella dedicandole queste osservazioni: «Le donne vanno allo stadio, tifano e strepitano non unicamente per compiacere fidanzati e mariti. A tale comunità non separata, ma pur tuttavia diversa, appartiene la Evangelista: e questa identità, il suo punto di vista femminile o femminista, costituisce un importante arricchimento per la cultura curvaiola del calcio. Aiuta a comprendere meglio, anche in tutta l’irrazionalità che supera le barriere naturali del sesso, le ragioni del sopravvivere d’una passione che persiste e supera, nonostante tutto, qualunque crisi economica, morale, politica».

In Tifosa e basta c’era una volta Donatella narrava la sua vita da tifosa rossonera, all’interno di quella Fossa di cui, per tutti, lei era la leonessa per la sua incredibile capigliatura nera, ma anche perché fu tra le prime (o forse la prima) donna ad avere in tasca la tessera del primo club ultrà della storia del tifo italiano. A questo proposito, lo scioglimento della Fossa dei Leoni avvenuto nel novembre 2005 fu per lei (e per molti altri) un vero trauma. Intervistata a riguardo, la sua risposta fu un sincero, profondo epitaffio: «La voragine non la riempi… Senza quello striscione che sprigionava magia e metteva i brividi, senza quel gruppo, non solo la curva sud non è più la stessa, ma anche l’intero stadio. E secondo me vale pure per il Milan; l’ho scorta e percepita in tante cose, questa sensazione, perfino da non poca gente che non ha mai avuto nulla a che spartire… quelli dei rettilinei… quelli tranquilli… quelli seduti comodi che guardano la curva sud con un occhio di diffidenza e uno di curiosità… Rimangono, nelle persone che al Leone hanno voluto bene davvero, quei valori di gruppo, amicizia, semplicità, serietà e onestà: insomma, i valori della Fossa. Tutto questo, non lo cancelli MAI». Principi che Donatella aveva ben radicati dentro di sé. Così profondamente, da restare spesso ferita quando non li incontrava negli altri.

Nel libro, però, non si parlava solo del Milan, delle sue vittorie e sconfitte. Perché Accia (uno altro suo affettuoso soprannome derivato da linguaccia, visto che quando doveva dire le sue idee non si nascondeva di certo…) “utilizzava” il calcio per raccontarsi senza omissioni, con quella sincerità che aveva come dono (e talvolta come condanna). E così, tra le pagine emergeva l’infanzia di una figlia della periferia milanese (era attaccatissima alla “sua” Gorla-Turro, dove crebbe); la sua famiglia (con il padre sarto) e il suo Berto, l’uomo per cui diventò ragazza madre felice di esserlo; l’amata figlia Alice, per un certo periodo promettente tennista; i suoi amici e il suo culto dell’amicizia; la sua collaborazione con Radio Popolare; il suo animalismo. E poi, le gioie e le tristezza di un’esistenza comune.

Il testo, inizialmente autoprodotto e poi “scoperto” dalla casa editrice, riscosse un certo successo. Tuttavia Donatella, che per iscritto non perdonava mai nulla a nessuno, non volle mai presentarlo. “Dura e pura”, e orgogliosa di esserlo, senza peli sulla lingua (anche se poi era capace di farsi perdonare, perché ai suoi amici voleva un mondo di bene) via mail o in privato, in pubblico era invece piuttosto riservata, tanto da nascondersi sempre dietro una paio di occhiali scuri. Dentro di sé era contenta dell’attenzione che aveva suscitato, ma non voleva apparire, parlare davanti agli altri. Rifiutava il ruolo dello scrittore che si mostra ai lettori, non le interessava. Forse perché pensava che tutto quello che aveva voluto dire era già sul libro, e non bisognasse ripeterlo. Forse perché detestava ogni retorica, ogni enfasi.

Ed è proprio così, che abbiamo voluta ricordarla.

Anche se abbiamo il cuore gonfio di lacrime.


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