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Carlos Alberto Montaner. La Cuba di Raúl Castro: il lato peggiore dei due mondi
23 Febbraio 2011
 

Raúl Castro ha convocato il Sesto Congresso del Partito Comunista Cubano. È sicuro di poterlo dirigere e controllare secondo la sua volontà. A Cuba non esiste potere più grande del suo, anche perché rappresenta pure una mezza dozzina di generali per mezzo dei quali controlla l’esercito e la polizia, aiutato dal figlio Alejandro Castro Espín, un colonnello dei servizi segreti formato nella scomparsa Unione Sovietica e presunto erede di questa dinastia di militari.

E Fidel? Fidel conserva soltanto un ruolo simbolico e passa il tempo giocando al grande statista internazionale, preoccupato per lo scoppio di una guerra nucleare scatenata da Stati uniti e Israele contro l’Iran, o per il prossimo omicidio di qualche amico del socialismo del XXI secolo perpetrato dalla CIA. Trasformato in una sorta di Cassandra caraibica, profetizza ogni catastrofe. Nessuno bada a quel che dice, ma lui si preoccupa teneramente per il benessere dei suoi figli rivoluzionari. Raúl, nel frattempo, finge di obbedirgli e, ossequiosamente, ripete come un mantra che le sue iniziative, in realtà, sono tutte di Fidel, anche se non è per niente vero.

È stato vero in passato, ma adesso non è più così. È una tragedia che di solito capita agli anziani quando le loro facoltà si deteriorano in modo evidente. Persone che fino a ieri si presentavano come fedeli subordinati, smettono di ascoltarli. Tuttavia, periodicamente, Fidel incontra Hugo Chávez per impartirgli lezioni su tecniche di sopravvivenza politica e per pianificare la conquista del pianeta, come se fossero due sinistri personaggi usciti da un fumetto di Batman. Chávez, al contrario di Raúl, mantiene la sua infinita ammirazione per il Comandante e si considera suo figlio putativo ed erede morale.

In ogni caso, il Sesto Congresso avrà luogo nella seconda quindicina di aprile del 2011. La sua funzione sarà quella di legittimare la volontà di Raúl. Ed era ora. Il Quinto si è celebrato 13 anni fa, nel 1997. Il quarto si è tenuto nel 1991. Secondo lo statuto del Partito, dovrebbe tenersi un congresso ogni cinque anni, ma i fratelli Castro non seguono le regole e li convocano solo quando serve ai loro scopi. Cosa accadrà nel prossimo? Vediamo a tal proposito di raccontare cosa è successo nei due congressi precedenti per tentare di capire il futuro. In fin dei conti, attori e copione sono quasi identici.

 

I congressi precedenti

 

Il congresso del 1991 ha coinciso con la fine del marxismo-leninismo. È stato una cerimonia rituale contro la perestroika, volta ad adattare il regime cubano alla nuova realtà. Nel 1989 i tedeschi avevano abbattuto il muro di Berlino, mentre cadeva a pezzi tutto il mondo comunista sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale. In quel congresso, celebrato dopo vent’anni, Fidel Castro, dopo aver proclamato quello che da allora si chiama “periodo speciale”, affrontando il giudizio silenzioso della classe dirigente e di buona parte del paese, ratificò la sua adesione al comunismo ortodosso e assicurò che Cuba “sarebbe sprofondata nel mare” prima di abbandonare la sua ideologia. Con la fierezza che lo contraddistingue, sancì la fine del Congresso con le grida rituali in favore del marxismo-leninismo e con il consueto “Patria o morte!”.

La fine del sussidio sovietico, calcolato in una cifra attorno ai 5.000 milioni di dollari annui, obbligava il governo a fare alcune concessioni di fronte alla crisi che attraversava l’Isola. Il collettivismo aveva dimostrato la sua inefficacia e il livello produttivo del paese era tremendamente basso. Cosa si poteva fare? Il Congresso decise di accettare alcuni investimenti stranieri, ma solo in società con il governo cubano. Se qualche investitore straniero voleva beneficiare della mano d’opera cubana o di un mercato protetto, doveva associarsi allo stato comunista per sfruttarli insieme. Il governo inserì come suoi rappresentanti in queste imprese miste numerosi militari in pensione dei servizi segreti, per premiare i più fedeli uomini di partito, e come conseguenza della solita paranoia politica.

Fidel Castro assicurò che sotto la sua guida la società cubana avrebbe presto recuperato gli indici di consumo che un tempo erano stati garantiti dal rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica. Nonostante tutto, le mancanze alimentari divennero preoccupanti: fame e denutrizione fecero contrarre a circa 60.000 persone neuriti ottiche e neuriti periferiche, e molti cubani rimasero ciechi. Il Comandante si mise personalmente alla guida di un così detto “piano alimentare” che avrebbe dovuto risolvere il problema del cibo in appena due anni. Il governo assicurava che in cinque anni Cuba avrebbe superato la crisi e il paese si manteneva come una riserva ideologica comunista per il giorno in cui il pianeta avrebbe ripreso i cammino del socialismo. L’opposizione descrisse l’esperimento come la creazione di “un parco giurassico del marxismo-leninismo”.

Le linee guida del piano di sviluppo prevedevano di potenziare l’industria zuccheriera, sfruttare intensamente il nichel, creare una grande infrastruttura alberghiera per ricevere milioni di turisti (cosa avversata per decenni per evitare la contaminazione morale), ed esportare in maniera massiccia prodotti di alta tecnologia medica creati nei laboratori dello Stato. Allo stesso tempo, il governo favoriva l’invio di rimesse dall’estero, depenalizzava il possesso di dollari e facilitava le visite degli emigranti che fino a quel momento erano stati considerati traditori.

Le cose non sono andate secondo le previsioni. L’industria zuccheriera ha subito un tracollo, le esportazioni di nichel, concesse a un’impresa canadese, dipendevano dal prezzo oscillante di quel minerale e non producevano le entrate sperate, le vendite di prodotti biotecnologici non sono state esaltanti e anche il turismo - pur con una crescita graduale - non portava grandi introiti al paese, perché quasi tutte le materie prime dovevano essere acquistate all’estero usando moneta forte. In certi casi, si dovevano importare zucchero, banane e altra frutta dalla Repubblica Dominicana, mentre l’agricoltura cubana non serviva neppure per i prodotti tradizionali.

Al tempo stesso, la mancanza di manutenzione, i frequenti uragani e l’incuria di alcuni funzionari ai quali sembrava non importasse niente del deterioramento crescente di città e campagne, distruggevano il paesaggio nazionale in maniera tale che i turisti erano soliti parlare di «un paese bombardato dove non c’era stata nessuna guerra». Un saggista e narratore cubano, Antonio José Ponte, ha scritto un magnifico testo intitolato Un arte de hacer ruinas (Un’arte di fare rovine) che dopo è servito come base per girare un premiato documentario sulla distruzione progressiva del paese.

Nel 1997, quando si tenne il Quinto Congresso, era già evidente che la formula castrista per sostenere il marxismo-leninismo non aveva dato risultati pratici. Sei anni dopo la fine del sussidio sovietico e delle nuove linee guida economiche, Cuba era ancora impantanata nella miseria, anche se era riuscita a fermare la caduta dell’infima qualità della vita che sperimentava la società. Poco prima che cominciassero i lavori del Congresso, il governo chiese ai militanti di esprimere le loro lamentele, in una sorta di esercizio del “centralismo democratico dal basso verso l’alto” che regola le relazioni nel Partito. Decine di migliaia di militanti si azzardarono a esprimere le loro opinioni, screditando il capitalismo di Stato, e chiedendo libertà per creare imprese o per uscire e entrare dal paese senza dover attendere un’autorizzazione governativa. Se gli stranieri potevano possedere imprese sull’Isola, sebbene in società con il governo, perché i cubani non dovevano avere lo stesso diritto?

Fu tutto inutile. Il Quinto Congresso del Partito confermò la linea ortodossa, Fidel Castro ribadì che il paese non si sarebbe spostato di un millimetro dal marxismo-leninismo, allontanò dal potere i militanti che avevano mostrato con eccessiva convinzione tendenze riformiste, e predisse la prossima fine delle società capitaliste come conseguenza delle loro contraddizioni interne. Non si prese neppure la briga di spiegare perché fosse fallito il piano alimentare, perché stesse crollando l’industria zuccheriera e dove fossero finite le promesse di recupero economico fatte nel 1991. La società cubana nel suo complesso, e migliaia di militanti comunisti in particolare, si sentirono ingannati e, in molti casi, traditi. Scappare dal paese in ogni modo possibile, divenne l’obiettivo principale di milioni di giovani.

Nell’estate del 2006, Fidel Castro si ammalò gravemente e lasciò provvisoriamente il potere al fratello Raúl, erede designato dal 1959, Secondo Segretario del Partito ed eterno Ministro della Difesa. Due anni dopo, in seguito a una situazione di salute che andava progressivamente peggiorando, Fidel si rese conto che non sarebbe potuto tornare al potere e rinunciò alla presidenza, anche se, senza dubbio, mantenne una grande influenza nelle decisioni strategiche del paese.

Apparentemente, Raúl doveva occuparsi solo di amministrare la dittatura, mentre definire i connotati ideologici del regime sarebbe rimasto un compito di Fidel. Questa teorica ripartizione di compiti venne smentita nella pratica dalla persecuzione di alcuni noti uomini fidelisti. Tre dei più importanti funzionari governativi - Carlos Lage, Secondo Vicepresidente del Consigli di Stato, Felipe Pérez Roque, Ministro delle Rapporti con l’Estero, e Fernando Remírez de Estenoz, suo Viceministro, i primi due nella ristretta cerchia degli intimi di Fidel - furono allontanati dai loro incarichi e umiliati. I tre funzionari vennero accusati pubblicamente di attività riformiste contrarie alle direttive del governo e di comportamenti corrotti. In realtà, Raúl Castro voleva muovere i fili del potere tramite suoi uomini fidati: un pugno di militari che sono al suo fianco da decenni. I fidelisti erano un ostacolo per i suoi piani.

 

Il prossimo Congresso

 

E siamo alla vigilia del Sesto Congresso. Cosa accadrà? Probabilmente, niente di significativo, nonostante tutto il gran parlare che si sta facendo. Identici leader con le stesse idee producono sempre simili risultati. Il governo ha messo in circolazione un documento di 32 pagine dove descrive i nuovi piani economici e ribadisce in modo chiaro la sua posizione in relazione al modello comunista: l’essenza del sistema continuerà a essere il collettivismo, la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione centralizzata da parte dei burocrati di Partito. Ratificano esplicitamente la vecchia strategia nemica delle libertà economiche. Non si degnano neppure di menzionare le libertà civili e politiche.

Sarà consentito, questo è certo, il lavoro privato, sempre che rientri tra le 178 modalità possibili: affittare vestiti da sposa, fare il pagliaccio nelle feste infantili, riparare ruote di auto, foderare bottoni e tanti altri strani mestieri. Si potranno costituire microimprese familiari, o con pochi lavoratori a contratto, dato che l’obiettivo non è farli crescere e ottenere benefici, ma assorbire la mano d’opera disoccupata che il governo pensa di lasciare senza lavoro statale.

Nei prossimi mesi, 500.000 lavoratori verranno licenziati, ma in meno di tre anni Raúl Castro pensa di aumentare il numero a 1.300.000, il 25% della forza lavorativa. Il generale e i suoi adulatori sostengono che le piante organiche sono sovradimensionate e che molti impiegati inutili ostacolano il lavoro delle imprese, mentre la società soffre la “sindrome del piccione” e attende dal papà-Stato la soluzione di tutti i problemi, un’accusa sorprendente dopo mezzo secolo di implacabile persecuzione nei confronti di ogni iniziativa individuale. Raúl vuole che l’economia divenga produttiva dopo averla liberata dal peso morto degli operai di cui si può fare a meno.

Cuba è una società annientata da mezzo secolo di collettivismo, priva di capitale, di materie prime e senza esperienza. Non è pensabile che con un decreto presidenziale si possa creare dal niente un nucleo importante di lavoratori privati o associati a piccole imprese, che saranno sottoposti a una severa pressione fiscale e a dure limitazioni per impedire la loro crescita ed eccessivi guadagni. Si tratta di un’idea bislacca che fa parte delle nuove fantasie rivoluzionarie di un signore che ha un’idea molto vaga su come si produce, si spreca e si conserva la ricchezza.

Cosa vuol fare, in definitiva, Raúl Castro? Il generale-presidente ha due obiettivi fondamentali intimamente legati tra loro. Prima di tutto vuole garantire la successione all’interno del sistema alla sua stessa famiglia. È falsa l’idea che i Castro non siano interessati al futuro di Cuba dopo la loro morte, perché hanno un senso molto forte della loro storia personale e di quella del paese. Hanno concepito una narrazione fantastica nella quale collegano la guerra d’indipendenza di fine secolo XIX con l’avventura della Sierra Maestra. Fidel si considera l’unico erede di Martí e Raúl si vede come l’unico erede di Fidel. Vogliono che il governo rivoluzionario non abbia fine. Pretendono che la generazione dei figli dei dirigenti raccolga il bastone del comando e continui l’opera rivoluzionaria.

Ma, per raggiungere questo obiettivo, Raúl crede che il governo debba fare in modo che la società cubana divenga più produttiva e competitiva. Raúl non ignora che la situazione economica del paese è terribile, circostanza che ha prodotto un divario incolmabile tra la stragrande maggioranza degli abitanti, la cupola dirigente e la mitologia rivoluzionaria. Nel suo primo discorso da capo di Stato, si chiese infastidito per quale motivo il latte fosse così poco, al punto che i bambini cubani potevano berlo solo fino a sette anni. Ma questa domanda poteva allargarla agli aspetti fondamentali della convivenza civile in un paese moderno: sono scarsi e di infima qualità i generi alimentari, l’acqua potabile, i vestiti, le calzature, le abitazioni, il trasporto, la somministrazione di elettricità e le comunicazioni. Raúl teme, a ragione, che una volta morti lui e Fidel, nessuno potrà evitare che i successori al potere, con le buone o con le cattive, abbattano “l’opera rivoluzionaria” come conseguenza della miseria generalizzata che soffre la popolazione.

Come si può risolvere o rendere sopportabile l’immenso problema del fallimento materiale del paese? È ovvio: con un sistema economico più produttivo. Persino Raúl Castro, dopo mezzo secolo di assurde chiacchiere rivoluzionare, comprende che le società sviluppate e prospere, dotate di un buon livello di vita, hanno raggiunto questa meta come conseguenza del loro apparato produttivo. Vivono meglio perché producono di più e a prezzi competitivi. Il problema, però, visto dalla prospettiva di Raúl e dei suoi intimi camerati, è quello di rendere più efficiente il sistema comunista in modo tale che la società cubana accetti di buon grado la successione all’interno della rivoluzione quando sarà scomparsa del tutto la generazione dei padri fondatori.

 

Il fallimento della riforma

 

Ma dalle querce non crescono i limoni. Il comunismo è improduttivo per natura. La pianificazione centralizzata, la proprietà statale dei mezzi di produzione, il controllo dei prezzi e l’assenza di libertà individuali per creare e accumulare ricchezza, inevitabilmente conducono all’improduttività e alla povertà.

Inoltre, il patto sociale tra i governi comunisti e le società non è basato sulla promessa di una gestione pubblica efficace e di risultati materiali apprezzabili (sono categorie del mondo capitalista), ma in una distribuzione egualitaria dei pochissimi beni e servizi che si producono, nel condannare e farsi beffe di chi scopre e possiede migliori sistemi di vita. Per quanto sia deplorevole, questo è il comunismo reale.

Quando Fidel governava, il paese viveva in maniera miserabile, ma la difesa retorica della sua gestione amministrativa si basava su tre punti fermi: tutti avevano un lavoro, potevano accedere all’educazione e ai servizi sanitari. A Fidel non importava che le imprese perdessero denaro, che produzione e produttività fossero minime, ma che tutti i cubani avessero un posto di lavoro e ricevessero un salario, per simbolico che fosse. A Fidel non interessava neppure che il sistema sanitario sprofondasse in ospedali privi di anestesia e senza fili di sutura, oppure che il sistema educativo fosse carente di buoni maestri e di materiale didattico. I servizi potevano essere pessimi, ma c’erano, e lui se ne vantava costantemente. La legittimità della dittatura dipendeva da questo discorso, che si è trasformato in un formidabile strumento propagandistico.

D’altro canto, visto che il tessuto produttivo era irrimediabilmente carente, esistevano solo due modi per giustificare un sistema di vita abominevole: l’embargo economico statunitense e, paradossalmente, i benefici dell’austerità rivoluzionaria. Perché un buon rivoluzionario avrebbe dovuto aspirare a possedere un numero maggiore di beni materiali? Il consumismo non era più un desiderio legittimo dei lavoratori, diventava un peccato tipico della perversa avidità capitalista, istigato dall’imperialismo, dalle multinazionali e da altri mostri di simile portata. I consumatori, o coloro che aspiravano a diventarlo, erano qualificati come amanti della paccottiglia (pacotilleros) storditi dal capitalismo corruttore.

La proposta di Fidel era crudele, ma almeno era sostenuta da un sofisma che possedeva una certa coerenza. Quella di Raúl è una pura e semplice assurdità: vuole che un certo numero di cubani produca da capitalista, ma all’interno di un sistema essenzialmente comunista, abbandonando, di fatto, il patto sociale tra lo Stato e gli individui preconizzato dalla retorica marxista, mentre rinuncia all’egualitarismo, accetta il sorgere della disuguaglianza e il consumismo nello stile di vita dei cubani.

Perché difendere un modello di stato comunista se la forma di governo si allontana completamente dai presupposti marxisti-leninisti? Il comunismo ha una logica interna: il Partito costruirà una società splendida, il paradiso del proletariato, dove i mezzi di produzione saranno collettivi e le persone, quando giungerà la fase superiore del comunismo, come profetizza Marx nella Critica al Programma di Gotha, «(lavoreranno) ognuno secondo le sue capacità, (e riceveranno un salario) ognuno secondo le sue necessità». Per arrivare a questo punto, naturalmente, bisogna attraversare la scomoda fase della “dittatura del proletariato”, per strappare dal cuore delle persone quei maledetti usi e costumi così radicati dopo diversi secoli di feudalesimo e capitalismo.

Niente di tutto questo resta in piedi con le riforme di Raúl. Secondo il suo ragionamento, dopo aver rinunciato alla “sindrome del piccione”, molti cubani si occuperanno di guadagnarsi la vita secondo il loro talento, la fortuna e le risorse, al margine dello Stato, e otterranno i migliori risultati possibili, anche se il loro riscatto economico li allontanerà dal sistema generale di vita della nazione.

La domanda sorge spontanea e non si può tacere: se l’obiettivo non è più quello di edificare una società comunista che segua i postulati della dottrina politica, perché si conserva il modello di Stato del partito unico e la dittatura del proletariato previsti dal marxismo-leninismo come formula per costruire quel modello di convivenza?

Credo che durante il Sesto Congresso del Partito Comunista Cubano nessuno formulerà certe scomode domande. Come fecero nel Quarto e nel Quinto, i delegati applaudiranno, ripeteranno slogan e appoggeranno senza protestare le decisioni di Raúl Castro, ma tra le persone che assisteranno ai lavori e all’interno della società cubana sarà a tutti chiaro che la rivoluzione comunista è miseramente fallita e che sarà impossibile tenerla a galla in maniera permanente dopo l’estinzione della generazione di chi, nel 1959, mise in moto il processo.

I pochi comunisti ortodossi che restano a Cuba si sentiranno traditi da Raúl Castro, mentre la maggior parte del popolo penserà che il fratello di Fidel porta con sé il lato peggiore dei due mondi: un comunismo senza generosità clientelari e un capitalismo con le mani legate che non permette un reale sviluppo individuale e collettivo. Non esiste un popolo latinoamericano più disperato e disilluso di quello cubano. Tutto ciò è molto triste.

 

Carlos Alberto Montaner

(Pubblicado su Letras Libres, Messico e Spagna, gennaio 2011)

Traduzione di Gordiano Lupi




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