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Ludovico il Moro: quando la storia diventa romanzo
21 Ottobre 2010
 

Il 21 ottobre 1494 una delle sue innumerevoli spie gli portò la notizia: Gian Galeazzo Sforza era morto. “Finalmente”, avrà sicuramente mormorato Ludovico il Moro. E senza versare una lacrima, passò subito all’azione chiamando qualcuno dei suoi collaboratori affinché venissero convocate le famiglie aristocratiche che costituivano il Consiglio Segreto del Castello. Era arrivato il momento di diventare ufficialmente duca di Milano e bisognava sbrigarsi, perché la cognata Isabella d’Aragona avrebbe legittimamente richiesto tale titolo per il piccolo primogenito Giovanni Francesco, figlio suo e del defunto ancora caldo.

Comunque, non c’era di che preoccuparsi: sicuramente i nobili milanesi lo avrebbero appoggiato, perché in quegli anni lui aveva fatto di tutto per isolare Gian Galeazzo e sua moglie dalla città. Inoltre il potere l’aveva sempre tenuto in mano lui, Ludovico, e nessuno avrebbe osato metterglisi contro. E infatti, così avvenne: l’indomani, dopo l’annuncio della morte di Gian Galeazzo, nella sala del Castello calò il silenzio. Interrotto solo dal fido Landriani che, a nome di tutti, gli propose di diventare duca. E poco importava se tale titolo lui l’avesse già comprato, in gran segreto, dall’imperatore Massimiliano, per proteggersi da eventuali problemi di successione. Poco importava, perché ora erano i “milanesi che contavano” a chiederglielo, e lui non poteva davvero rifiutare.

Il secondo sopruso era dunque servito: Giovanni Francesco non sarebbe mai diventato duca. Tutte le tessere del puzzle erano al loro posto. Un gioco “sporco”, che era iniziato ben 16 anni prima, nel settembre 1478, quando la cognata Bona di Savoia l’aveva invitato al Castello. Tra i fratelli del defunto marito Galeazzo Maria, ucciso da una congiura in Santo Stefano nel 1476, Ludovico le era sembrato il meno pericoloso. In fondo, era stato lui ad accoglierla a Genova, prima del matrimonio. E poi il Moro gli era sempre parso tranquillo, quasi modesto nel parlare. Così, si era fidata: non ne poteva più di temere per sé e per la vita di suo figlio, il giovane duca Gian Galeazzo, ed era stanca dei pareri del vecchio consigliere Cicco Simonetta, che l’avevano portata ad un guerra infinita con i cognati. Inoltre Bona era innamorata di un giovane, Antonio Tassino, e voleva rifarsi una vita, perché nei due anni seguiti alla morte del marito, per preservare il titolo al figlio, una vita non l’aveva avuta. E così ora proponeva a Ludovico un compromesso: lui poteva rientrare a Milano, riprendersi i beni confiscati, e insieme avrebbero condotto per mano Gian Galeazzo tra le insidie del potere.

A quella parole, Ludovico avrà sicuramente annuito rispettoso. Sogghignando fra sé e sé, perché capì subito che gli si stava offrendo su un piatto d’argento il ducato di Milano. Una donna in crisi e un ragazzo borioso ma insicuro: meglio di così, non gli poteva capitare. Al che, gli bastarono pochi giorni per imprigionare, torturare e giustiziare Cicco Simonetta, accusato di tramare contro lo Stato. E nemmeno due anni per togliere il figlio Gian Galeazzo alla madre Bona, pure lei sospettata di congiura e perciò relegata ad Abbiategrasso.

Era il 1480, e adesso Ludovico se la doveva vedere solo con il nipote Gian Galeazzo, bello e dai riccioli biondi. Neppure con lui fu molto difficile. Il giovane aveva problemi di salute, perché amava troppo cacciare, abbuffarsi e straviziare con le prostitute. Bastava dargli questo in abbondanza per fargli dimenticare di essere il legittimo duca di Milano. E poi, lo si vedeva benissimo, Gian Galeazzo aveva soggezione dello zio Ludovico. Il quale, quando voleva, non gli risparmiava nessuna umiliazione. Come quando, nel 1490, lo convocò al Castello e davanti a tutta l’aristocrazia milanese lo accusò di non avere ancora consumato, dopo un anno, il matrimonio con Isabella d’Aragona. Povero Gian Galeazzo, che figura.

Nonostante questo, per ben 16 anni il Moro aveva dovuto aspettare la lenta consunzione del nipote. Magari, come scrissero Machiavelli e Guicciardini, aiutandola con piccole dosi di veleno. Certo, il vero padrone di Milano era sempre stato lui, Ludovico. Aveva speso cifre enormi per la sua amante Cecilia Gallerani e per sua moglie Beatrice d’Este, la sposa bambina, che a 15 anni era arrivata a Milano attraverso il Po ghiacciato. Una Beatrice che si sarebbe rivelata donna di grande classe, un’ottima ambasciatrice, ma soprattutto una madre: quando era nato il loro primo figlio, Massimiliano, le campane di Milano avevano suonato per sette giorni.

Ludovico aveva poi trasformato il Castello in una sfarzosa corte dove si leggevano poesie e Divina Commedia, si danzava e giocava a scacchi, guancialino, carte e tarocchi. In cui si sentiva musica e bel canto, visto che proprio lui aveva soffiato i migliori interpreti a Lorenzo il Magnifico e al Papa. E poi c’era quel Leonardo, con cui era andato subito d’accordo per via del carattere forte: sicuramente, qualcosa di buono, di eterno, l’avrebbe creato per lui, per il Moro.

Ora, finalmente, il momento era giunto. E il 26 maggio del 1495 avvenne la celebrazione ufficiale, in una piazza del Duomo stracolma. Ludovico Sforza era il nuovo duca. Tuttavia, come in un incubo, ciò che lui aveva creato, per cui aveva tradito e ucciso, stava per rivoltarglisi contro. Infatti, nemmeno due mesi dopo quel trionfo, le truppe della Lega Italica non riuscivano a sconfiggere quelle francesi di Carlo VIII, di ritorno dalla conquista di Napoli. Ludovico, che all’inizio aveva permesso il passaggio al re di Francia, ora era schierato contro di lui, e questo significava una grave disfatta politica e militare. A cui, poco dopo, se ne aggiunse un’altra, più personale: la morte di Beatrice, avvenuta l’1 gennaio 1497 nel partorire un bimbo morto.

Secondo alcuni, il Moro perse la testa per il dolore, cominciando a vestirsi di scuro tanto da essere soprannominato “il cavaliere in nero”. Secondo altri, invece, la sua era solo una tattica per commuovere i nemici. I quali, invece, non provarono alcuna pietà per lui. Nel 1799, infatti, fu attaccato dal nuovo re di Francia Luigi XII. E lasciato solo dagli altri italiani (Venezia ne approfittò per invadere il bresciano), con Milano in rivolta, dopo aver affidato i figli al fratello cardinale Ascanio, Ludovico si vide costretto a scappare a Innsbruck dall’imperatore Massimiliano.

Poteva forse finire lì, la storia di Ludovico Sforza. Ma la sua tragedia era appena iniziata. Milano, infatti, odiava i violenti (sporchi, maleducati) francesi e il cardinale Ascanio riuscì a rientrarvi con 4.000 svizzeri. Seguito, due giorni dopo, dal duca stesso, che per pagarsi i mercenari forse impegnò i celebri gioielli del tesoro sforzesco. Ludovico venne accolto trionfalmente dai milanesi, e a quel punto sembra che inviasse un messaggio di pace al re Luigi XII, probabilmente proponendogli il pagamento di una notevole somma in cambio del mantenimento del ducato. La lettera, però, fu intercettata e distrutta dal comandante in capo delle truppe francesi, il conte Trivulzio. E così Ludovico, dopo avere atteso invano una risposta, fu costretto a dare battaglia. Lo scontro si svolse a Novara nell’aprile del 1500, e anche in questo caso la sorte fu contraria al Moro, che nei due primi giorni si vide sfuggire la vittoria per pochissimo. Salvo poi essere tradito dai mercenari svizzeri che, il terzo giorno, si rifiutarono di continuare la battaglia chiedendo la resa al Trivulzio. Ludovico, allora, come era e sarebbe successo ad altri (Federico Barbarossa e Mussolini), si travestì da soldato per cercare di scampare all’arresto. Invano: il venerdì dell’ulivo, dopo un controllo ad esercito schierato, venne riconosciuto (forse su indicazione di Soprasasso, il capo degli svizzeri) e trasferito a Loche, in Loira. Dove, prigioniero di lusso, cadde in depressione per la lontananza dalla sua città e soprattutto dalla sua carica (nonostante gli venisse mandato il suo buffone preferito). Disperato, il Moro cercò persino un’improbabile fuga. Ripreso, morì il 27/5/1508, e la sua salma venne portata a S. Maria delle Grazie, dove era stata esposta anche quella di Beatrice d’Este.

Quattordici anni erano passati, da quel giorno di ottobre in cui era morto Gian Galeazzo. Di questi, più della metà erano trascorsi in triste prigionia. Chissà, se Ludovico il Moro diede la colpa della sua rovina alle malefatte che aveva architettato. Chissà se si pentì. O se non si pose nemmeno il problema, accettando la disfatta come parte di quel gioco del potere di cui era stato protagonista, prima vincendo e poi perdendo. Del resto, così è la Storia: prima dà, e poi toglie. A leggerla e a raccontarla bene, un meraviglioso, imprevedibile romanzo. Saludi.

 

Mauro Raimondi


 
 
 
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