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Marco Schiavetta. La guerra moderna vista dal punto di vista antropologico e sociologico 
Una semplice riflessione sullo scenario mondiale contemporaneo
21 Settembre 2010
 

L.D. Trotzski, afferma: «Voi potreste non essere interessati alla guerra, ma la guerra si interessa a voi», con questa frase semplice e diretta, ci rendiamo conto di come volenti o no, le guerre anche se combattute lontano da casa nostra, ci riguardano molto più da vicino di quanto noi stessi, a volte per mille motivi, vogliamo accettare.

L’uomo, o meglio ogni società, una volta arrivata ad una sua identificazione di potere economico, politico e militare, sembra che non sia più capace di valutare obbiettivi pericoli che possono arrivare da altre realtà sociali diverse dalla propria. In un mondo globalizzato, in cui la cultura occidentale, indirizza che lo si voglia ammettere o no, poco importa, la direzione in cui l’intero Pianeta sta procedendo, trovandoci a fare le somme con dati, che sono ancora delle incognite. Queste incognite sono rappresentate dalle situazioni di tensione e di conflitto, che negli ultimi venti anni sono scoppiati sempre con maggiore frequenza tutto intorno a noi.

Abituati a pensare alla guerra come alla contrapposizione di due forze, questa è l’immagine che i media hanno sempre trasmesso della Guerra fredda, in cui gli equilibri giocavano su strategie di tensione, ora lo scenario è cambiato. Negli anni della Guerra fredda, la minaccia nucleare e la corsa agli armamenti, sono stati i mezzi usati per confrontare le forze e incutersi reciprocamente paura per un’eventuale aggressione. Questo schema, nella maggior parte dei casi è sempre bastato per non oltrepassare il limite che porta a misurarsi sul campo, e anche nei momenti in cui la guerra c’è stata, è sempre stata combattuta in territori e Paesi lontani. Cosi stavano le cose sullo scacchiere del mondo fino alla caduta degli equilibri che la disgregazione dell’Unione Sovietica ha determinato.

Venuta meno la contrapposizione delle forze del blocco sovietico, gli Stati Uniti, travestiti da salvatori della situazione pesantemente critica creatasi, complice anche la poca lungimiranza dei Paesi europei, sono divenuti gradualmente i detentori di un potere decisionale al quale tutti gli altri Stati, che diano il loro appoggio o meno, sottostanno.

Creatasi questa situazione, assistiamo anche al suo riconoscimento da parte di autorevoli commentatori che citando uno stralcio del libro Polizia globale: «Bobbio ritiene che la supremazia politico-economico-culturale americana (o occidentale) nel mondo non solo giustifichi queste guerre, ma costituisca un “diritto assoluto”», contribuiscono al perpetrarsi della situazione. Uno degli insegnamenti dell’antropologia è che quando le persone vengono strappate alle loro tradizioni, alla loro cultura, possono accadere vere e proprie tragedie.

La cultura d’appartenenza non è un semplice elemento decorativo, essa è una coperta termica in cui noi ci avvolgiamo per tenere lontano quel cuore barbaro che, come la storia insegna, giace sotto la superficie degli individui, ma anche per comprendere questa sensazione, per trovare un ordine e un significato in un mondo che ultimamente è carente di entrambi.

Come diceva Lincoln, è la cultura che ci permette di raggiungere i migliori angoli della nostra natura; quando l’individuo viene allontanato da questa cultura e sopravvive come l’ombra di ciò che era stato una volta, possono accadere cose tremende.

La sociologia della comunicazione ci pone elementi molto interessanti su cui riflettere: da Seattle a Goteborg, al G8 di Genova, le contestazioni allo strapotere americano si sono sempre più ampliate, il popolo silenzioso di Seattle è cresciuto, e non va dimenticato che gli Stati Uniti tra i tanti primati che possono vantare, annoverano anche quello di aver perso un conflitto, quello del Vietnam, anche per la radicale opposizione dell’opinione pubblica mondiale.

Anthony Giddens, con la “disaggregazione”, espressione da lui usata per esprimere gli instabili allineamenti di tempo e di spazio che sono di fondamentale importanza per il cambiamento sociale in generale e per l’avvento della globalizzazione in particolare, coglie il punto focale su cui vanno viste oggi le nuove guerre moderne. Le guerre, quindi anche se non combattute in casa nostra, sono pur sempre, non solo per motivi etici e morali, ma anche più crudelmente una questione di interesse, una questione in qualsiasi parte del mondo che ci tocca in prima persona.

Le diverse leve del marketing di guerra sono abilmente messe in forma in una “logistica strategica della comunicazione”, nell’ambito di un mutamento di quadro decisivo, trasformando quelle che un tempo erano “comunicazioni in tempo di guerra” nella “guerra nel tempo della comunicazione”.

Risultato di questo modo di fare informazione è che la neoguerra viene vinta da chi la racconta meglio, o da chi è in grado di assicurarsi il monopolio del narrare, cioè dei modi di presentare la realtà.

Ci troviamo ora a dover fronteggiare situazioni di guerra, radicalmente differenti dalle precedenti: dal 1991 in Kuwait, le guerre non sono più dichiarate ed al nemico non è riconosciuta nessuna parità formale o sostanziale. Questa guerra è stata motivata come un intervento di ordine pubblico internazionale, sotto lecita dell’ONU, ovvero un’istanza che agiva in nome dell’umanità, incommensurabile rispetto alle pretese dello stato iracheno. È se fin qui le cose sono seguite seguendo i binari riconosciuti da tutto il mondo, questo non è accaduto nel ’99. Qui le forze della coalizione, hanno agito senza la legittimazione dell’ONU; ed ancor meno riguardi hanno avuto nel 2003, anno in cui l’intervento è avvenuto come atto unilaterale di Stati Uniti, Gran Bretagna e pochi altri.

Ciò significa che si è affermato il principio pratico secondo cui si può usare la forza delle armi, ogni volta che alleanze guidate dagli Stati Uniti decidono di intervenire: in questa prospettiva è da notare il fatto che l’intervento militare non implica una mobilitazione totale dei paesi che formano l’alleanza, questo intervento viene dunque in un certo senso normalizzato, reso sempre possibile quando si decide d’intervenire, dato che le altre forme di pressione o influenza non hanno dato i risultati sperati.

Questo appena descritto è forse il più evidente risultato a cui i fatti dell’11 Settembre hanno indirizzato l’agire dell’occidente, fornendo un argomento per un interventismo permanente. Gli Stati Uniti, possono decidere di muoversi contro ogni Stato che è anche solo sospettato di appoggiare organizzazioni terroristiche. Ma proprio qui sta la contraddizione che si è creata, perché se qualunque conflitto è inquadrato come lotta al terrorismo, allora si può sostenere la tesi che ogni atto in sua opposizione, ossia che contrasta le operazioni di “polizia globale”, può essere considerato di terrorismo. Su questo ragionamento, si è creato il consenso del mondo occidentale, capitanato dagli USA.

La mobilitazione globale di cui gli Stati Uniti si servono, non è loro propriamente necessaria per conseguire gli obiettivi che hanno in mente, ma li investe del consenso politico che gli necessità per portare avanti le loro crociate. Riconducendo ora il discorso su quelle che sono chiamate le “nuove guerre”, utilizzando l’aggettivo “intelligente” per indicare come i bombardamenti sono precisi, e mirati solo su obbiettivi militari, rassicurando l’opinione pubblica su come queste nuove tecniche avrebbero causato un numero “accettabile” di vittime tra i civili e soprattutto a “costo zero” per i militari della coalizione, a gran voce si è fatta una propaganda martellante.

I media in generale hanno appoggiato questo scenario, tralasciando sicuramente non per distrazione, la drammaticità e lo sconvolgimento, che comunque per quanto veloci e intelligenti queste guerre possono essere, causano sul popolo bersaglio della situazione. È stato negato lo status di vittime, che è deducibile dalla generalizzata indifferenza per gli effetti politici, sociali e materiali dei conflitti sulle popolazioni colpite; la presenza continua di sfollati, la creazione di enormi campi profughi, uno stato di guerra che si protrae ben oltre la fine delle operazioni militari.

Scenari simili si affermano in ogni territorio teatro di guerra, è proprio di questi tratti l’autentico significato di un’umanità in eccesso, come sottoprodotto costante delle guerre di ingerenza. Come si è pensato di risolvere queste situazioni? Attraverso il dispiegamento di ingenti presidi internazionali, che territorializza intere popolazioni in un ordine esclusivamente etnico: i protettorati.

Le politiche di sicurezza sono alla base di queste scelte, i protettorati garantiscono una gestione della situazione quasi ottimale, impedendo a queste popolazioni ogni possibilità di asilo in paesi terzi (impedimento maturato dalla presenza internazionale in loco) e la gestione per etnie rende quasi nulli i conflitti tra profughi. Anche qui si vede il gioco vizioso che ne nasce, “stare dalla parte delle vittime”, in quanto figure “ontologicamente universali” e immediatamente riconoscibili, legittimano l’universalità del dovere di ingerenza.

Da questo scenario ne consegue una collusione tra militare e umanitario, per chiarire questo punto cito quello che sostengono Dillon e Reid, «molte organizzazioni umanitarie e non governative sono reclutate all’interno di quelle strutture e pratiche di potere, di quel progetto essenzialmente politico, contro il quale erano nate e si erano definite politicamente». Il passo successivo dell’ideologia umanitaria è, dopo aver coperto l’intervento armato e gestito il processo di pacificazione, quello di seguire, o meglio guidare, la missione civilizzatrice impegnata nella costruzione della democrazia, ciò che sta avvenendo in Iraq.

Questo obbiettivo è operato agendo, in primis sul cercare di ricostruire un minimo di strutturazione delle forze lavoro, compito che viene assolto principalmente dalle organizzazioni statali e non statali, che fungono da principali datori di lavoro. Il salario, in questi casi è un indicatore dei rapporti di forza politici non sempre connesso con i reali valori economici prodotti, anche perché i fondi a cui attingono per i salari dei dipendenti pubblici provengono, direttamente o indirettamente, dai bilanci statali dei paesi che fanno parte dell’ONU, in ogni caso i salari sono uno strumento di pianificazione. Pianificazione, intesa a controllare nemmeno in un modo tanto nascosto, gli indirizzi che si vogliono imprimere al processo di democratizzazione del Paese in assestamento politico-economico.

Questa realtà descritta si vive oggi in Kosovo, dove la struttura degli aiuti ha incoraggiato un atteggiamento passivo e scarsamente solidaristico nella popolazione che si affida alle strutture delle Organizzazioni non governative anche quando non è strettamente necessario. Lo stesso malcostume si verifica anche in Iraq, dove come in Kosovo, si assiste anche ad un effetto di discriminazione della stessa gente locale nei confronti delle persone appartenenti al loro stesso gruppo che si adoperano, cooperano con le Organizzazioni non governative dei paesi della coalizione, sentimento maturato dai più svariati motivi, che vanno dal considerare questi dei traditori o più prosaicamente dall’invidia, maturata per ragioni economiche, per non essere stati scelti loro.

Ho cercato di aprire una finestra sulla situazione in cui oggi la nostra società è giunta, anche se in continua evoluzione, la fotografia che ne è emersa credo abbia messo in evidenza quello che era il mio intento, mostrare dove oggi la politica dell’Occidente, o meglio di chi l’Occidente manovra cioè gli Stati Uniti ha spinto il mondo. Dalla fine del bipolarismo, l’Occidente combatte in media una guerra ogni tre anni e, vista la rapidissima trasformazione del quadro internazionale, esistono concrete paure che altri conflitti sono alle porte.

Un esempio su tutti è rappresentato dalla Cina, una nazione che ha ormai superato abbondantemente i tre miliardi di persone, come si può ragionevolmente pensare che rimanga frenata dalle decisioni degli Stati Uniti che contano poco più di trecento milioni di abitanti.

Prima dell’attacco alle Twin Towers lo scenario mondiale sembrava dominato indiscutibilmente dagli americani, oggi la depressione economica e culturale, in cui l’Occidente è sprofondato e soprattutto la sensazione di un futuro privo di senso, che altro non rappresenta se non la perdita di fiducia nei propri valori ha generato uno stato di paura. La fiducia che è stata tradita ha sconvolto ogni sistema di certezza sulla sicurezza propria di ogni occidentale in primo luogo, causando una psicosi nei confronti di chiunque sia diverso, proiettando su chiunque non corrisponda all’idea di sicurezza il sospetto che possa nascondere una minaccia.

La globalizzazione dell’economia di mercato ha subito una forte accelerazione negli anni successivi alla caduta dell’Unione Sovietica, determinata dalla fine della Guerra fredda, causando spostamenti nelle poste in gioco economiche in relazione alle dinamiche politiche relative alla pace e alla guerra.

Ci troviamo proiettati su nuovi scenari, in cui i limiti tradizionali fra pace e guerra sono cancellati, e non ancora riscritti i nuovi, o meglio questi “limiti” sono in continua trasformazione, dinamici. Il mantenimento della pace e lo sviluppo economico reale restano la meta a cui guarda l’umanità, e ora cominciamo a vedere nel mondo, segnali di opposizione al militarismo dell’attuale leadership americana.

Immanuel Wellerstein offre molti spunti a livello di analisi sia teorica che empirica delle relazioni globalizzate, le “economie-mondo” sono secondo il suo punto di vista drasticamente mutate con l’avvento del capitalismo, che è stato fin dall’inizio una questione dell’economia-mondo e non degli stati-nazione; il capitale non ha mai permesso che le sue mire fossero determinate dai confini nazionali. Il capitalismo è stato un fattore così profondamente globalizzante proprio perché è un ordinamento economico anziché politico; esso ha permesso di penetrare vaste aree del mondo che mai sarebbero entrate sotto il completo controllo politico degli stati in cui esso ebbe origine.

L’amministrazione coloniale di paesi lontani ha sicuramente favorito l’espansione economica, ma non è mai stata l’asse portante della diffusione dell’impresa capitalistica a livello globale, testimonianza ne sono le guerre di pacificazione postcoloniali che si riallacciano appunto ad un passato fallito della globalizzazione cercata per mezzo del colonialismo. Il moderno sistema mondiale si divide in tre parti costituenti (c’è chi ne individua anche quattro) la cui ubicazione regionale varia col tempo: il centro, la semiperiferia e la periferia; e anche se il colonialismo è scomparso, l’economia capitalistica mondiale continua a presentare squilibri tra queste aree.

A mio avviso ancor meglio descrive la dimensione della globalizzazione Anthony Giddens, anche lui considera l’economia capitalistica mondiale, ma come una delle quattro dimensioni del fenomeno. L’economia capitalistica mondiale, va pensata insieme al sistema degli stati nazione, dell’ordinamento militare mondiale e alla divisione internazionale del lavoro. Se nell’ordinamento politico mondiale gli stati-nazione sono i protagonisti, le grandi imprese sono gli agenti dominanti nell’economia mondiale. Nei rapporti commerciali tra di loro, oltre che con gli stati e i consumatori, le grandi società (multinazionali) dipendono dalla produzione di profitto. La loro crescente influenza porta con sé oltre ad un’estensione globale dei mercati delle merci e di quelli monetari, la mercificazione della forza lavoro in relazioni di classe che privano i lavoratori del controllo dei loro mezzi di produzione; processo che è ovviamente carico di implicazioni per le sperequazioni globali.

Unico fine sembra il profitto immediato, i tempi brevi e le decisioni veloci che gli investimenti speculativi della borsa richiedono, inducono più una temporalità distruttiva politico-militare che ad un investimento produttivo di periodo lungo.

Gli Stati Uniti, al comando del mondo occidentale, stanno conducendo una politica, che consiste nell’appoggiarsi ai gendarmi d’area, che si reputano più adatti per raggiungere il fine, indipendentemente da qualsiasi considerazione relativa alla democrazia o ai diritti umani. I diritti umani, di cui si fa un gran parlare, e noi occidentali diamo così scontati, sono per noi abitanti del primo mondo, chiamato sviluppato un dato di fatto, anche se non poche volte questi sono stati congelati, per periodi più o meno lunghi anche in Occidente, si pensi alle limitazioni durante il G8 di Genova.

Mentre a noi è riconosciuto di fatto lo status di cittadini globali, agli abitanti del secondo, terzo o quarto tale diritto è negato, si pensi al gruppo di Schengen, un sistema istituito tra ministri degli interni dei paesi dell’Unione Europea, un'istituzione intermedia, deputata all’elaborazione di strategie di controllo e schedatura elettronica degli stranieri, per non parlare di quello che sta avvenendo in Francia.

Come cercare di arginare il sentimento di paura che la perdita di fiducia nel sistema di sicurezze del mondo Occidentale vive oggi? Penso sia necessario un attento esame di coscienza ed affrontare il pregiudizio secondo cui il conflitto oppone modelli culturali e riflettere, al contrario, sulla natura politica di molti supposti conflitti culturali. Non voglio negare il peso del fondamentalismo religioso nel conflitto globale, ma dico che bisogna andare più in profondità e cercare cosa ha portato al risveglio questi movimenti.

L’Occidente dipende dai Paesi produttori di energia, che si vedono derubati della loro ricchezza senza trarne nessun vantaggio alla loro situazione di povertà, perché solo poche persone beneficiano della presenza delle compagnie straniere che operano in questi Paesi, ed è su questo punto che Bin Laden, si rivolge alle masse diseredate dei Paesi islamici, facendo leva sul messaggio religioso, che viene usato come detonatore, per far esplodere la rabbia e la violenza nei confronti dell’Occidente. Partendo dalla comprensione di questo senso di ingiustizia che deriva dalla povertà e dalla frustrazione dei produttori di ricchezza, che l’Occidente deve muovere per trovare la via per riequilibrare la situazione, se vuole veramente uscire da questo momento storico mondiale di guerra permanente, paura generalizzata, sfiducia, crisi economica, limitatezza politica e sociale. Dopo l’11 settembre 2001, il mondo è rimasto incredulo a ciò che i propri occhi vedevano, ma che la ragione non riusciva ad accettare, il cuore degli Stati Uniti era stato colpito, non è stato il numero delle vittime la cosa più scioccante, ma l’idea ormai certezza che nessuno è più sicuro in questo sistema di guerra permanente.

 

 

Per ulteriori approfondimenti:

A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona, 2003.

A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994.

A. Lawless, “Lo Schiamano di Harvard: intervista a Wade Davis”, trad. it. in Three Monkeys Online.

Left, Nuova sere - N. 48 del 8 dicembre 2006 (qui in pdf).

Marxists Internet Archive > Sezione italiana

 

Marco Schiavetta


 
 
 
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