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Lidia Menapace. 25 luglio 2016
25 Luglio 2016
   

Vi prego di aiutarmi a diffondere anche ai vostri indirizzi questa riflessione che risentirà certamente di uno stato alquanto febbrile in cui mi trovo; ma ciononostante vorrei che arrivasse al giro più ampio possibile anche a scusa e parziale rimedio per iniziative sul tema, che avevo progettato e concordato per il 23-24-25 luglio e non ho potuto soddisfare per le ragioni che indico qui, grazie lidia

 

 

Il 25 luglio (1943)...

 

...ovvero la caduta del Fascismo. Me lo ricordo bene il 25 luglio del '43, un giorno di pura gioia. In qualsiasi grado di vicinanza lontananza sostegno opposizione al Fascismo ciascuno/a si trovasse, quel giorno rappresentava la gioia di poter dire, gridare, urlare: “È FINITA!” Si intende la guerra, ma anche il regime fascista, che -stato davvero popolare per un bel po' di anni- aveva avuto un brusco calo, quando Mussolini il 10 giugno 1940 dichiarò la guerra schierando l'Italia a fianco di Hitler, dicendo pubblicamente: “mi servono alcune migliaia di morti per potermi sedere al tavolo dei vincitori”. Questa frase non gli fu perdonata e fece scadere il “Capo” del governo e “Padre” della Patria a uno che pensa solo al suo vantaggio a qualsiasi costo.

Sicché quando l'otto settembre del '43, dopo tre anni di guerra cruentissima e sfortunata, con morti più civili che militari battaglie bombardamenti sulle città fame disastri la Russia ecc. ecc. il re e Badoglio annunciarono l'armistizio con gli Alleati, nessuno pensò al peggio: la frase col suo fraudolento messaggio: “la guerra continua” passò quasi inosservata. I giovani che erano sotto le armi dalle caserme fuggirono per andare a casa, dopo l'annuncio dell'armistizio e solo allora si accorsero che la Wehrmacht, che durante tutta l'estate era calata ad occupare gran parte del nostro paese, li considerava “Banditi” sparabili a vista senza processo. Ma quasi tutti invece furono presi in casa dalle donne che ricoverarono il nostro esercito e lo salvarono. Considero questo il primo grande atto della nostra Resistenza, e non solo un maternage, perché chi prendeva in casa un giovane doveva dargli da mangiare e con la tessera si moriva di fame; e se catturavano a casa tua un “Bandito” lui lo fucilavano. Ma casa tua la bruciavano. Né i guardaroba domestici erano così forniti, che ciascuna famiglia avesse molti ricambi d'abito.

Mi ricordo mia madre che, quando fu preso mio padre che era stato richiamato proprio l'estate del '43, e per mesi non sapemmo nulla di lui, soleva dire “qualche donna aiuterà papà come noi aiutiamo i figli”. E quando mio padre per buona sorte tornò dopo 24 mesi di durissima prigionia, raccontava che nel campo di Przemysl in Polonia le donne buttavano qualche sacco di patate e forme di pane benché i soldati tedeschi le respingessero con le baionette in petto. “Questa è l'economia delle donne!” diceva la mamma. Che quando mio padre tornò nell'agosto del 1945, per una frazione di secondo non lo riconobbe tanto era smagrito stracciato sporco pieno di pulci, un barbone e solo al suo cenno di sorriso lo prese in casa abbracciato stretto nonostante le pulci. Mio padre per un paio d'anni non parlò della prigionia. Al suo arrivo aveva detto solo: “Qualunque cosa la Germania abbia fatto, ha pagato abbastanza: è tutta una rovina”. Ma non ci disse di perdonare, disse: “non dobbiamo ripetere gli errori di Versailles, perché se ora buttiamo addosso al popolo tedesco una pace vendicativa e insopportabile, si ribellerà”. Ecco una “lezione di storia” di quelle alla buona, ma vera.

 

Lidia Menapace


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