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Alberto Figliolia. Enzo Bearzot, il piacere di un lavoro ben fatto
16 Luglio 2011
 

Il Vecio scosse la mutria, rassegnato. Sembrava triste, ma se appena scopriva i denti in un sorriso ecco che poteva incutere paura. In quell'attimo il volto, pur buono, avrebbe allontanato qualsiasi bullo da caffè: un calcio, durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d'un pugile in guardia perenne.

Da Giovanni Arpino, Azzurro tenebra (1977)

 

Per tutti, affettuosamente, era il Vecio. Enzo Bearzot era un uomo dal rigore morale assoluto, qualità che si conciliava con un patrimonio di grande sensibilità. Ed era anche molto colto, l'Enzo nato ad Aiello del Friuli il 26 settembre 1927. Il “rude” mediano amava la lettura, i classici e il jazz.

Difficile, non solo nel mondo del calcio, trovare uomini così verticali e tutti d'un pezzo.

Bearzot sapeva tutto del calcio italiano e mondiale. Un bagaglio di conoscenze reso ancor più formidabile dall'abilità di (ri)elaborazione che egli aveva.

Gran merito fu suo di quel Mondiale 1982 vinto quasi inopinatamente, dopo una partenza difficoltosa e sotto gli strali di una stampa scatenata se non inferocita, battendo e surclassando via via i leziosi argentini (2-1), i presuntuosi e suicidi brasiliani (3-2), i polacchi ormai vittime sacrificali (2-0) e, in finale, i baldanzosi tedeschi (3-1).

Era la squadra di Bruno Conti, ala dalla tecnica funambolica, un ardente lirico sulla fascia, una trottola che faceva girare la testa a ogni difensore, indecifrabile e refrattario a ogni marcatura gli venisse opposta, di Antonio Cabrini, il bel terzino dalla tecnica superba, del monumentale Dino Zoff – la sua parata a bloccare sulla linea bianca un pallone colpito di testa da un disperato brasiliano allo scadere di una tenzone da attentato alle coronarie è da considerare una delle parate più difficili e più importanti del calcio italiano, di ogni mondiale, di tutti i tempi –, di Paolo Rossi che da sperduto scricciolo seppe trasformarsi in spietato sparviero, dell'elegante stopper Collovati, dell'ancor più elegante, sublime diremmo, Gaetano Scirea, tanto bravo quanto taciturno, del razzente Tardelli. E in panchina lui, questo Savonarola non fanatico.

Fu un trionfo inaspettato. Eppure l'Italia sempre allenata da Bearzot aveva già mostrato magnifico gioco quattro anni prima ai mondiali blindati d'Argentina, quelli giocatisi sotto il tallone della dittatura militare e col dramma incombente e celato dei desaparecidos. L'Italia arrivò quarta, ma avrebbe meritato ben di più.

Enzo Bearzot ci ha lasciati il 21 dicembre 2010. Il giorno in cui iniziava l'inverno. Non avrebbe scorto e respirato una nuova primavera il ragazzo che dalla Pro Gorizia era approdato all'Inter nel 1948.

Era umile Bearzot. Lui che era stato campione del mondo era il più umile di tutti. Determinato, cosciente di sé, ma anche sereno e pacifico. Un romantico, per quanto saldamente coi piedi per terra. Un lavoratore e un sognatore. Concreto e capace d'inseguire l'utopia. Non era malato di narcisismo, non si pavoneggiava. Perché avrebbe dovuto? Gli bastava essere un uomo normale.

Perfezionista, ma non maniacale. Curioso, sempre.

Un vuoto pesante, ora. Ora che non c'è più.

Negli ultimi anni una malattia. Stava in disparte. Vero è che non avrebbe cercato le folle, era schivo. Bearzot tuttavia sapeva essere gioviale. Un uomo splendidamente normale.

Mi passa fra le mani un libro scritto in occasione del suo ottantesimo compleanno, un'antologia-omaggio di pregevolissima fattura, Un coro per il Vecio-Diciannove voci per Enzo Bearzot, con un'intervista di Gianni Mura. Il libro edito da Curcu & Genovese (2007, pp. 120, euro 10) è stato curato da em bycicleta, presidio di fabulazione sportiva.

A proposito di quanto dicevamo prima, alla domanda di Mura Come le piacerebbe essere ricordato? Risponde... Come una persona perbene.

Le firme diffuse ne Un coro per il Vecio hanno captato il carattere del nostro ricostruendo Storia e storie, atmosfere, situazioni, incontri, idee, sentimenti, creando suggestioni e felicemente divagando e inventando, in una fiction che si nutre del reale e nel reale che tramuta in oltre – una perla i versi in milanese di Franco Loi: Sansir, l'era 'n cadin d'èrba e culur, da L'Angel.

«La felicità è come un'arietta che ogni tanto accarezza il volto. Ma le ferite, anche morali, non passano mai, ti segnano una vita. Non le dimentico. E nemmeno le emozioni», diceva.

Enzo Bearzot: una figura imprescindibile del calcio italiano, dei valori sportivi più veri e genuini.

Di lui rimarranno, prima ancora che le grandi vittorie (da sole potrebbero bastare...), il piacere di un lavoro ben fatto, l'onestà intellettuale, la dirittura morale, l'intelligenza. Anche l'intelligenza del cuore.

 

La buona, la meravigliosa Lina/ spalanca la finestra perché veda/ il cielo immenso./ Qui tranquillo a riposo, dove penso/ che ho dato invano, che la fine approssima,/ più mi piace quel cielo, quelle rondini,/ quelle nubi. Non chiedo altro./ Fumare/ la mia pipa in silenzio come un vecchio/ lupo di mare (Umberto Saba, 1948).

 

Alberto Figliolia


 
 
 
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