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Gianfranco Cercone. “Baby love” di Vincent Garenq: un’altra famiglia è possibile
08 Gennaio 2009
 

Guido Aristarco, mio insegnante di cinema all’Università, sosteneva che il mito più insidioso dei nostri giorni, del quale il cinema si fa a volte propagatore, può essere riassunto nella seguente massima: il mondo è quello che è, e niente possiamo fare per cambiarlo.

Contro questo mito, Aristarco polemizzava da marxista, convinto della necessità, e della possibilità, di una rivoluzione proletaria, della quale il cinema avrebbe dovuto essere suggeritore e battistrada. Ma quella polemica, credo, può essere condivisa anche da un fronte politico lontano dal suo, come quello dei radicali.

 

Proverò a riferirla a una graziosa commedia francese, uscita in Italia in questi giorni: Baby love.

Riguarda un tema di cui oggi si discute parecchio: le coppie di fatto omosessuali, e la loro impossibilità, anche in Francia, di adottare bambini. Il pediatra Emmanuel, che convive da molti anni con l’avvocato Philippe, ha un desiderio cui non intende rinunciare: essere padre.

La biologia non è dalla sua parte; il partner è a dir poco riluttante; la legislazione francese non lo aiuta.

Si finge eterosessuale single per ottenere un’adozione: ma l’assistente sociale lo smaschera.

Passa in rassegna donne lesbiche, disponibili a concepire e a crescere un bambino insieme a lui. Ma gli esami clinici gli dimostrano che è sterile.

Tutto sembra perduto, quando una ragazza argentina, invaghitasi di lui, utilizzando il seme del suo partner, decide, per pura generosità, di fare un figlio da affidare ai due uomini.

Insomma, come in un film americano, c’è qualcuno che rivendica il diritto alla libera ricerca della propria felicità; e, superando tanti ostacoli, alla fine realizza i suoi sogni.

 

Certo, quel sogno non è rivoluzionario, come sarebbe piaciuto ad Aristarco; e non mira nemmeno alla riforma del diritto di famiglia che interessa ai radicali. È un sogno ritagliato sulla stretta misura della vita propria, del proprio partner, e del proprio bambino.

Tuttavia, la storia di Laurent, grazie alla ragionevolezza e alla moderazione del protagonista e dei comprimari; alla loro apparenza di normalità; al desiderio di paternità che accomuna Laurent a tanti uomini, può forse convincere lo spettatore refrattario che una famiglia composta da due genitori dello stesso sesso, non è una mostruosità da far rabbrividire.

Ma lodato il film per il suo messaggio civile, apprezzata la discrezione e la finezza con cui il racconto è condotto (sia pure senza grandi slanci creativi), devo confessare che mi ha lasciato un senso di angustia.

 

L’amore – e proprio forse nelle sue forme ancora non integrate – non dovrebbe trascinare con sé un sogno di rinnovamento, se non di rivoluzione, sociale? La lotta per i diritti civili non può avere che come traguardo la costituzione di nuove famigliole, di signori integrati e benpensanti, la cui diversità sessuale via si attenua e si riassorbe nel fondale della normalità?

Sono dubbi che esulano dalla critica cinematografica in senso stretto.

Ma Aristarco richiedeva su ogni film, distinto dal giudizio artistico, un giudizio politico. Ma so che è una china pericolosa: al prossimo articolo forse rientrerò nei ranghi.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie radicali, 5 gennaio 2009)


 
 
 
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