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Gianfranco Cercone. “Via col vento” di Victor Fleming
25 Giugno 2020
 

È vero talvolta anche per i film ciò che Freud teorizzava dei sogni. Come il significato di un sogno è nel suo contenuto “latente” – nascosto – che può essere anche in totale contrasto con il suo aspetto “manifesto”, così certi film, a ben guardare, hanno un significato profondo che contraddice ciò che essi stessi dichiarano di voler significare (forse perché i loro autori non erano consapevoli, o non del tutto, di ciò che aveva davvero detto nel loro film).

Mi sembra questo il caso di uno dei più celebri classici della storia del cinema, Via col vento, un film del '39, vincitore di otto premi Oscar, in questi giorni tornato agli onori delle cronache dopo che la piattaforma americana HBO ha deciso provvisoriamente di cancellarlo dal proprio catalogo, per il contenuto razzista che gli è attribuito.

In effetti, il lungo, il fluviale racconto che costituisce il film, e che si svolge ai tempi della Guerra di Secessione, in uno Stato del Sud degli Stati Uniti, la Georgia, sembra avvolgere in un clima di nostalgia, quasi di idillio, quella particolare società, che la guerra finirà per travolgere, che ammetteva la presenza di grandi proprietari terrieri e di schiavi neri adibiti a contadini o a domestici delle residenze dei bianchi; neri, in fondo, felici della loro condizione perché, viene detto, trattati con umanità, e perché, si suggerisce, la loro personalità rudimentale non permetteva loro di aspirare alla libertà.

Su questo sfondo sedicente storico, intessuto con grandiose scene di massa, si stagliano le vicende private, le grandi passioni soprattutto amorose, dei protagonisti bianchi, i quali, malgrado i loro difetti, giganteggiano per la forza del loro carattere.

Se però osserviamo più da vicino questi caratteri e le relazioni tra loro, se sfrondiamo il racconto del suo sentimentalismo esasperato fino al ridicolo, della retorica patriottica, della magniloquenza delle scenografie, per esempio di quei grandi tramonti sulle piantagioni in technicolor, ci appare un film tutto diverso: l’apparente idillio si trasforma in una specie di incubo; e quelle vicende, in apparenza solo private, si rivelano una critica dura, spietata, della società che le esprime.

Prendiamo il carattere della protagonista, Rossella O'Hara, magnificamente interpretata da Vivien Leigh, che sembra incarnare lo spirito dei possidenti del Sud. In gioventù capricciosa ed egoista, interessata soltanto ai propri casi privati, pronta a usare i suoi pretendenti, e perfino a sposarne uno, per ingelosire l’unico uomo di cui si ritiene innamorata – e che vorrebbe soffiare a sua cugina, che lo sposerà – quando, durante la guerra, il padre impazzisce, trasferisce il suo egoismo e il suo cinismo nella conduzione della sua proprietà terriera, trasformandosi in despota dei suoi stessi familiari, disposta a sfruttare prigionieri bianchi trattati come schiavi, pronta a uccidere, a ingannare, a prostituirsi, per la difesa della sua proprietà.

È vero che la sua determinazione sembra trarre forza da un sogno d’amore, dalla dedizione intima, che dura per anni, all’uomo sposato a sua cugina. Ma ecco che quando la moglie di quell’uomo muore, e il sogno forse potrebbe finalmente realizzarsi, quel sogno improvvisamente svanisce, lei scopre di non essere più innamorata. Forse perché il suo cuore indurito, la sua natura profondamente viziata, la rendono incapace di un amore reale.

L’uomo dal quale resta invincibilmente attratta, da lui ricambiata, è un uomo simile a lei, altrettanto cinico ed egoista. E il legame tra loro, che non può essere davvero amoroso, è fatto di continue violenze reciproche, di ogni genere, sofferte e godute; di avvicinamenti provvisori e di spietati abbandoni, forse destinati a succedersi all’infinito, come per una punizione infernale.

A fronte di tanta negatività, i lavoratori neri, in primo luogo la mitica Mami, la fedele domestica di Rossella, certo resi ignoranti dall’atavico stato di soggezione in cui si sono formati, sono comunque personaggi capaci di autentica bontà.

Non si può certo esaurire un film sovrabbondante e contraddittorio come Via col vento in un discorso di pochi minuti. Vi invito però a riscoprire il film proprio nelle sue contraddizioni: nelle sue evidenti grossolanità, ma anche nei suoi momenti di finezza, a volte di straordinaria penetrazione psicologica; nel suo conservatorismo razzista, ma anche nella sua netta, inequivocabile, critica e condanna di una società.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 20 giugno 2020
»»
QUI la scheda audio
)


 
 
 
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