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Donne romane, belle e d’appetito 
di Luciano Luciani
13 Dicembre 2020
 

Critico equilibrato e severo delle cose d’Italia di due secoli fa, James Fenimore Cooper (1789 – 1851), il celebre scrittore della frontiera americana, autore dell’Ultimo dei mohicani (1826), di passaggio per Roma, tappa di un suo più lungo tour europeo, non poté esimersi da un sincero omaggio di fronte allo spettacolo dell’avvenenza delle donne della Città eterna.

Sono stato colpito dalla bellezza singolare delle donne incontrate per le strade di Roma nell’ultima settimana di Carnevale. Quasi tutte appartengono al ceto medio; ma, siccome si fanno vedere in pieno giorno, non possono avere addosso molti artifici. Hanno tutta la delicatezza delle donne americane, ma hanno seni e spalle più belli, e non mancano affatto di colorito. Hanno un’aria singolarmente femminile e modesta.

Un giudizio ammirato che lo scrittore “barbaro” giunto nella capitale del cattolicesimo da un mondo lontanissimo condivideva con legioni di artisti e letterati, cronisti e viaggiatori passati per l’Urbe negli ultimi mille anni almeno. La Città dei Papi, opulenta e affamata, miserabile e doviziosa, si rifletteva anche nell’aspetto esteriore delle sue donne e nei loro comportamenti: ora è la seduttiva e spregiudicata Marozia (892 – 955), “bella come una dea e focosa come una cagna” a incarnarne l’intima essenza, ora tocca alla dissoluta e tribolata Lucrezia Borgia, “Venere per l’aspetto” e figlia di un pontefice a riassumere nei suoi successi mondani e nei dolori privati la natura profonda di una Roma caput mundi, anzi caput munni, santa e plebea, disincantata e superstiziosa, indifferente e passionale. A Roma stanno bene preti, frati, puttane e abbati suona un antico adagio romanesco confermato dalla fortuna pubblica delle celeberrime cortigiane Fiammetta, Imperia, Tullia d’Aragona, che non conobbero, però, un destino personale altrettanto propizio.

No, le donne, soprattutto se belle, non hanno fortuna a Roma, specialmente se all’avvenenza e al fascino uniscono ambizione e intraprendenza, coraggio e mancanza di scrupoli. È il caso di Teodora (870 – 916) e delle sue due figlie Marozia (892 – 937) e Teodora II, a cui il potere maschile non perdonò di avere infranto un millenario dominio di genere. Così una storiografia tendenziosa presenta Teodora come “una sfacciata puttana… che chiavava preti e cardinali per governare e ottenere favori” e tutte e tre le donne come protagoniste di quel governo delle prostitute che resse le sorti di Roma per i primi trent’anni del X secolo. Né andò meglio, mezzo millennio più tardi, a due nobildonne, Vittoria Accoramboni (1557 – 1585) e a Violante Carafa d’Afile che pagarono con la vita il coraggio di darsi un amante; a Beatrice Cenci che allo stesso modo scontò il tentativo di liberarsi da un padre-padrone; ad Artemisia Gentileschi (1593 – 1653) che espiò con l’allontanamento da Roma la propria originalità artistica.

 

La bellezza delle donne romane, cos’è?

 

La bellezza. Concetto effimero, volatile quello della bellezza. Soggetto al mutare del tempo, dei punti di vista, delle mode. Il giudizio estetico è sempre singolare e soggettivo e non è possibile stabilire una volta per tutte ciò che è bello sempre e comunque. In cosa consiste, dunque, questa tanto decantata bellezza delle donne romane? Dopo circa un millennio di enunciazioni più o meno vaghe, Gigi Zanazzo (1860 – 1911), studioso delle tradizioni del popolo romano e poeta romanesco a sua volta, propone finalmente un canone largamente condivisibile e minimamente obbiettivo:

Sette bellezze cià d’avé la donna

prima che bella se possi chiamà:

arta dev’esse, senza la pianella,

e bianca e rossa senza l’alliscià.

La bocca piccolina e l’occhio bello

Grazziosetta dev’esse ner parlà:

larga de spalle e stretta in centurella

quella se pò chiamà na donna bella:

larga de spalle e stretta de cintura

quella è na donna bella pe natura.

Certo, ben più sanguigno nei suoi canoni estetici e senza alcuna pretesa di fornire una precettistica si era dimostrato Giuseppe Gioacchino Belli:

A Nina

 

Tra ll’antre tu’ cosette che un cristiano

ce se farebbe scribba o fariseo,

tienghi, Nina, du’ bbocce e un culiseo,

proprio da guarnì er letto ar gran Zurtano

 

A cchiappe e zzinne, manco in ner moseo

sc’è robba che tte po’ arrubbà la mano;

chè ttu, ssenz’agguantaije er palandrano,

sce facevi appizzà Ggiusepp’ebbreo.

 

Io sce vorrebbe franca ‘na scinquina

che nn’addrizzi più tu ccor fa l’occhietto

che ll’antre cor mostrà la passerina.

 

Lo so ppe mmè, cche ppe ttrovà l’uscello,

s’ho da pisscià, ciaccènno er moccoletto:

e lo vedessi mò, ppare un pistello.

(1831)

Profonde le differenze tra il garbo controllato del primo e la densità materica quasi espressionista del secondo, che assumendo come proprio il punto di vista della plebe romana non può che servirsi di un mondo di immagini e di un lessico grevi, triviali, osceni.

In un altro sonetto di alcuni anni dopo, il Belli conferma i capisaldi della sua estetica tanto grossier, quanto di straordinario mimetismo letterario:

La Bellezza de le bellezze

 

Ce pomnn’esse in ner Monno donne bbelle,

ma un pezzetto de carne apprilibbato

come la serva nova der Curato

nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.

 

Nun te dico er colore de la pelle

più ttosta assai d’un tamburro accordato:

nun te parlo de chiappe e dde senato

che ttappicceno er foco a le bbudelle.

 

Quer naso solo, quela bbocca sola,

queli du’occhi, so robba, Ggiuvanni,

da fàtte restà llì ssenza parola.

 

Si è ttanta bella a vvèdela vistita,

Cristo, cosà sarà sott’a li panni!

Bbeato er prete che sse l’è ammannita.

(1834)

Insomma, il paradigma della bellezza femminile introiettato nel senso comune e nell’immaginario collettivo del popolo romano ha più a che fare con le forme prosperose delle giunoniche trasteverine o monticiane che con le esili ed eleganti silhouette pure presenti, immaginiamo, in qualche palazzo aristocratico della nobiltà nera. Ce lo conferma la canzone romana che nella sua storia secolare ci ha consegnato parecchi testi in cui, non a caso, di frequente amore e cibo si mescolano, originando significativi intrecci e ambigui doppi sensi.

Così, in un canto popolare della prima metà del XVI secolo troviamo l’elenco dei cibi ingeriti da una giovane moglie nei pochi giorni che vanno dalla cena al viaggio di nozze:

La cena della sposa

 

Che mangerà la sposa la prima sera – la prima sera

che mangerà la sposa la prima sera – che mangerà?

Una fravola inzuccherata

mezzo abbacchio e l’insalata

e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

 

Che mangerà la sposa la seconda sera – la seconda sera

Che mangerà la sposa la seconda sera – che mangerà?

una fravola inzuccherata

mezzo abbacchio e l’insalata

due sfogliate e una crostata

co’ mezzo piccioncin – co’ mezzo piccioncin…

E procedendo per accumulazione si arriva alla dodicesima sera, quando la fresca consorte spazza via una mensa pantagruelica:

Che mangerà la sposa la dodicesima sera, la dodicesima sera

Che mangerà la sposa la dodicesima sera, che mangerà?

una fravola inzuccherata

mezzo abbabcchio e l’insalata

due sfogliate e una crostata

tre piccioni viaggiatori

quattro belli pomodori

cinque porchi ammazzatori

co’ sei galli cantatori+

sette anguille marinate

otto indivie sacppucciate

nove botti di bon vino

dieci olive di Marino

undici scatole di confetti

e in più dodici pasticcetti

e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

Di ben diverso appetito la madonna protagonista di Fatevi all’uscio, un altro canto caratteristico del Cinquecento romano. Il suo è un desinare quasi monacale, una dieta che raccoglierebbe l’approvazione di una modella anoressica dei nostri giorni:

Fatevi all’uscio

 

Fatevi all’uscio madonna dolciata

Ch’io v’ho recato un cesto d’insalata.

 

Io v’ho arrecato alsì di fine erbetta

hovvi recato molta porcellana

e nempitella e salvia con rughetta,

persia coviella e di molta borrana.

Siete più chiara che acqua di fontana

e rilucente più che una stagnata.

Fatevi all’uscio madonna dolciata,

ch’io v’ho recato un cesto d’insalata…

Avvenenti e fascinose le donne romane. Ma a voler essere precisi bisogna dire che molte di queste bellezze provenivano dalla Ciociaria. Per esempio, molte, moltissime delle modelle – e anche modelli – che posavano negli innumerevoli studi di pittori e scultori che operavano negli atelier artistici della città ormai divenuta capitale del Regno d'Italia: un'attività, un mestiere che proseguì per tutto il tardo Ottocento e i primi decenni del Novecento. Ragazze vestite nei loro tipici e colorati costumi si ritrovavano in via Margutta per essere scelte dai Maestri della forma e del colore di tutta Europa che apprezzavano le loro qualità estetiche: gli splendidi incarnati, gli occhi grandi e luminosi, le capigliature nere e fluenti, ora lisce ora ricce, le forme ruscellanti... A rendere famose queste giovani e giovanissime donne originarie soprattutto di Anticoli e Saracinesco, illustrandone i pregi e la grazia, pittori come Nino Costa (1826-1903), Felice Carena, lo spagnolo Barbasan, Adolfo De Carolis, il francese Moulin (1863-1946), il brasiliano de Freitas... Non fa meraviglia, poi, che molte di loro abbiano goduto di una fama che andava anche ben al di là dei ristretti confini municipali e regionali. Accadde così per La Palma, Ersilietta, per Rosa Lucaferri che sposò il Barbasan, per Lina Ciucci coniugata De Carolis, mentre Margherita Toppi e Pasquarosa Marcelli seppero emanciparsi e passare dall'altra parte del cavalletto e della tela: da modelle seppero farsi pittrici, riconosciute e affermate.


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