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Stefano Bardi. Dialetto e vernacolo come Poesia: omaggio a Franco Scataglini
29 Marzo 2017
 

Insieme al dialetto genovese e al dialetto pugliese, quello anconetano è uno dei più antichi e arcaici, che sono arrivati ai giorni nostri; e come i suoi predecessori, anche esso è stato usato per comporre antologie poetiche, come ci è stato dimostrato dal poeta Franco Scataglini (Ancona, 25 luglio 1930 – Numana, 28 agosto 1994). Un poeta che però ha creato un nuovo tipo di vernacolo, dislocandolo in mezzo a una vulgata graziosa e tragica allo stesso tempo. Più precisamente il suo vernacolo va oltre il vernacolo medesimo, ovvero il suo linguaggio paesano non è più una vulgata tondeggiante e una pazza fisicità intellettuale, bensì una fusione fra la psiche e il corpo.

Come tutti i poeti, anche lo Scataglini iniziò la sua carriera con una plaquette composta da liriche in italiano del 1950, dal titolo Echi. Un'opera composta da un giovanissimo Scataglini di appena vent'anni, che ha già la strada segnata nell'anima della sua vita e dalla Storia. Opera dell'infanzia si può definire, poiché queste poesie rappresentano scene puerili e pubescenziali che a loro volta sono dislocate dal poeta nelle scarpate della guerra, dello sfollamento, della pace; e la verità risiede nel bianco e nel nero che ritma l'intera esistenza, la città, e il cinegiornale dal quale traspare uno sconosciuto e lontano mondo, che sarà riscattato dalla poesia di questa plaquette. Liriche, per l’appunto come suggerisce il titolo della raccolta, che sono rappresentate come echi da una vulgata mezzadra e urbana che, a sua volta, si basa su un idioma “elettronico”, irreale, grezzo, e squisito allo stesso tempo. Una raccolta, questa del 1950, in cui già si affacciano i primi lessemi in anconetano popolare, ma solo però sotto la forma di un sacro velo. Passiamo ora alla sua produzione in anconetano, iniziando dal 1973, quando venne pubblicata la raccolta E per un frutto piace tutto un orto.

Una raccolta in cui possiamo vedere coi nostri occhi la divisione fra il dialetto e il vernacolo concepite dallo Scataglini come due vulgate diverse fra loro. Il dialetto usa una lingua dalla libera architettura glottologica e il secondo, invece, una lingua dall'architettura glottologica, derivante dal dialetto o dall'italiano nazionale. In poche parole, per lo Scataglini, il dialetto e il vernacolo sono due lingue che fanno parte della nostra dottrinale eredità, che non per forza però deve essere diffusa attraverso le parole e le scritture. Premessa questa di vitale importanza per capire nel profondo l'opera dello Scataglini; e per procedere di conseguenza linearmente, nella sua analisi. Una raccolta quella del poeta anconetano che promuove i vernacoli facendoli passare come delle indipendenze filologiche, in cui sono impliciti gli spiriti della terra che, a loro volta, impreziosiscono le varie singolarità; e che sposa in pieno la filosofia antropocentrica, attraverso la fusione di lessemi vernacolari e di lessemi linguistici trecenteschi. Fusione che a sua volta passa attraverso una coniugazione sintattico-linguistica basata sulla cognizione e sull'esperimentazione grammaticale, quest'ultima a salvaguardare un'esatta consapevolezza analitica. In poche parole quest'opera può essere considerata come un diario poetico, in cui le singole liriche sono disposte come una corolla della vinta e satanica esistenza degli uomini. Liriche scritte con una grammatica nobile e uno stile arido, che gli consente di attuare una faceta scansione tematico-linguistica. Allo stesso tempo queste liriche sono colme di corrispondenze e unisoni, che creano parallelismi fra legami passati e giornalieri, fra colloqui spirituali e fisici, e fra le cose vere con quelle riflessive. Concludo questa mia analisi sull'opera del 1973 spendendo due velocissime parole sulla lingua usata dallo Scataglini, che è per l'appunto una lingua dell'assenza, della dipartita, della silenziosa marcia esistenziale; e che si basa sull'utilizzo del vernacolo scientifico e “scolastico”. Un vernacolo che è utilizzato dallo Scataglini come una vulgata con cui esprimere le architetture socio-linguistiche, le battute di una classe sociale composta da inferiori, e le metafore etiche e spirituali del vessato.

Il 1977 è l'anno della raccolta Sò rimaso la spina, in cui trovano spazio liriche rivolte a Dio, innanzi al quale noi tutti siamo solo ed unicamente un oggetto, un'ombra, e un misero bagliore nell'Universo da Lui creato. Secondo il poeta anconetano è dal peso, dalla natura, dal colore, e dalla fortuna che nascono gli autentici e solidi legami fra gli uomini, che, essendo creature dell'Universo, dal suo moto sono catturate. Legami che però non si fanno vedere per quello che sono veramente, rimanendo così di conseguenza chiusi nel loro intimo e umano mondo. Raccolta sotto forma di diario intimo, in cui prendono vita nomi e ombre della sua stirpe, ricordati dallo Scataglini all'interno di una biografia allargata e vissuta, con chi è stato ferito da dimenticanze e illogicità. Nomi e ombre che si muovono in spazi domestici e urbani, che tanta gioia e dolore nello Scataglini hanno creato, durante la loro esistenza. Inoltre, in questo intimo diario, prendono anche vita conflittuosi legami fra l'esistenza e la letteratura, fra il bisogno come esigenza e le chimere; e fra i fantasmi del passato, di impavidi e mortali sfoghi sessuali. Non più una raccolta con al centro il tema della natura, ma quello dell'erudizione, che a sua volta studia come resistere e sopravvivere nella società degli uomini. Un'erudizione che, però, sarà la creatrice dell'emarginazione, che a sua volta rimarrà segregata nella sua umana e intima temporalità. Poc'anzi si è detto della sopravvivenza erudita, che secondo lo Scataglini può essere realizzata attraverso l'uso del vernacolo, seppur lo Scataglini medesimo, così facendo, rimarrà incarcerato ad un'esistenza confinale e borderline. Un vernacolo che, per l'appunto, sarà utilizzato dal poeta anconetano per rappresentare un mondo “senza fine” animato da paesaggi marini, da mezzadri, e da umili cittadini immersi nella loro beltà e nella loro semplicità.

Il 1982 è l’anno della raccolta Carta laniena, composta da poesie di un uomo dell’umano nell’uomo, ovvero poesie di una creatura che parta dall’analisi del suo lato pessimistico, per poi immergersi alla fine del suo viaggio in un mondo chiuso in se stesso, vergineo, ancestrale, e candido come il puro latte bianco. Uno status quo che è tipico di coloro che consumano l’esistenza di confini, sotto una luce che non ha storia, non ha patria, e non ha una sua tipica e intima vulgata; e questi personaggi si muovono fra il reale e l’irreale, all’interno di un stretto patimento di una chimera che nulla è, proprio come nulla è la sabbia sulla sabbia. Tre sono i temi che questa raccolta principalmente rappresenta. Il primo è quello della dipartita concepita come l'ansia dell'intelletto che, nel camminare verso il mondo, viene rapita e azzittita da sé medesima. Il secondo tema è quello dell'acqua, che si presenta sotto la forma acquosa dello Stige e, come esso, pure l'acqua dello Scataglini immerge l'Uomo all'interno di un mondo senza fato; e inoltre, quest'acqua, non è solo intesa come una sostanza infernale, ma anche e soprattutto come un'acqua salvifica, per mezzo del mare da Dio creato. Il terzo e ultimo tema è quello storico, grazie a Vallemiano e il suo vecchio mattatoio, che nella mente del poeta anconetano rimembrano gli stermini di massa degli ebrei durante il Nazismo e lo sgocciolio degli anziani, nati per dipartire senza una vulgata e un fato. In conclusione, per lo Scataglini questa raccolta simboleggiò il riconsegnarsi a sé medesimo, il riappropiarsi della propria storia, e il ripercorrere le sue oceaniche e segrete origini. In particolar modo, il riappropiarsi di sé medesimi volle dire per Franco Sacatglini il non dover più camminare nell'ombra, bensì il vivere all'interno di un mondo in cui si amano, con inediti sentimenti, gli elfici boschi e i nettuniani mari. In conclusione, seppur questa raccolta è l'opera della rinascita spirituale dello Scataglini, non lo è però della scrittura scatigliana, poiché la raccolta è realizzata con un dialetto che liricizza un Io chiuso e incarcerato all'interno di un fato mai accettato e giustificato, ma all'incontrario vissuto e consumato come un rimorso, come una blasfemia, come un affanno, e come un castigo.

Il 1995 è l'anno della sua ultima opera di successo, ovvero il poema El sol, in cui principalmente vengono rappresentati i patimenti degli sconfitti e le verità di quest'ultimi. Un poema in parte anche autobiografico, attraverso poesie che rappresentano l'oltre, il qui-e-ora, e le reminiscenze collegate alle sue quotidianità. In questo poema il mondo rappresentato dallo Scataglini viene letto con una puerile e purpurea chiave di lettura, in cui il sole simboleggia l'esistenza, le radici ancestrali, la residenza quotidiana, e le radici socio-culturali. Accanto al tema del sole, altri temi importanti del poema sono quello della fabbrica come emarginazione, quello dell'operaio, e quello della bicicletta come modernità.

 

Stefano Bardi


 
 
 
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