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Archeologia editoriale. Angelo Maria Ripellino: Scontraffatte chimere (Pellicanolibri, 1987) 5
01 Giugno 2009
 

segue OSSERVAZIONI



A PROPOSITO DI

«AUTUNNALE BAROCCO»


L’esercizio della poesia è una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini. Le squallide vicende dei giorni presenti paiono sottolineare l’inutilità della poesia, perché essa, sempre più scalzata sui margini, nulla può lenire e a troppi non dice nulla. La poesia è magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione. Ma come può svellersi da essa colui che ne è malato, che il ritmo stesso dei giorni scandisce con la misura dei versi? Ed ecco nascere una sgomenta raccolta da camera, un album di improvvisi, di fantasie, di sommesse inflessioni, di autunnali bisbigli.

La clownerie dei miei precedenti libri vi si stempera in fiaba notturna, in una sorta di intimità schubertiana, abitata da stralunate parvenze di vecchie, di confettieri, di gatti, di pagliacci di paccottiglia, da figure bibliche, da parlamenti di uccelli, da personaggi hoffmaniani come il maestro Johannes Kreisler e il dottor Spallanzani.

Queste liriche sono il protocollo di una malinconia troppo inerme: di una stanca mestizia per l’incombere della vecchiaia, per gli inganni di occulti machiavellisti che insidiano il gracile bozzolo dell’esistenza con perfidi zuccheri e agguati e rapine e travestimenti.

Scriver poesie nell’assedio in cui siamo invischiati vuol dire caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomassie e delle assonanze la Morte.


1977




Salamandre azzurrine guizzano dal boccale,

salamandre di fuoco dallo spirito dell’uva.

Che altro sai fare, archivio di ogni male,

se non scrivere versi, disperato,

col tuo labile umore di nuvola?

Qualcuno ti guarda con compassione,

un cane dagli occhi di brace,

un cane malato,

che mugola senza pace.



*


La testa si perda, d’accordo, ma almeno

resti la tonda bombetta.

L’importante è l'ossequio, l'inchino,

la benpensante apparenza corretta.

Le vele si dissolvono, ma almeno

resti la chiglia dei bastimento

con gelide colombe sui pennoni

e un ostensorio di piccole perle d'argento.

Sia vuoto il bicchiere, ma almeno

una montagna di spuma ne copra i bordi.

Sia deserta la casa che già fu felice, ma almeno

dalla strada un lampione la inondi

di una fievole luce di fieno.



*


Una ragazza di nome Gemona

spasima e trema sulle macerie.

Le cadono addosso fuscelli di case,

calcinacci malati, intemperie.

O terra pagliaccia, acciarino di pianto,

o gobba e torbida terra maligna,

terra di boati e di rantoli,

terra pelata da rogna e da tigna,

ammasso di frane e di ruderi,

ignobile terra sorniona,

voragine, schianto e palude,

abbi pietà della nuda Gemona.



*


Questa musica mi entra nelle ossa.

Nella notte serena tintinnano tetre

le campane dal fondo del lago lontano.

Dinanzi alla villa ciabattano pianelle di vetro.

Ti stringo spasmodicamente la mano.

Come lingue di fuoco si accendono e guizzano

sonorità cristalline

tra l’abbaiare dei cani,

spegnendosi poi in un pianissimo

che lacera l’anima.

Di giorno invece mi allieta

lo stuolo di saltellanti bambine,

che cantano in mezzo ai gerani.



*


Pupazzi di pasta di mandorle e di cannamele

mi vengono incontro dalla specchiera appannata,

come dalla vetrina di un malvagio confettiere.

Comiche manine, gambe storte

corrono alla mia bocca spalancata.

Tutto il dolciume natalizio della morte

mi piomba addosso con macabro splendore.

Dirò un nome di donna per salvarmi.

Sapeste come ho bisogno di amore.



*


Non si accorgono nemmeno

di quello che hai scritto.

Getteranno i tuoi versi tra gli stracci vecchi.

Resterai sguattero, guitto.

in questa fiera di gattigrù delle lettere.

Sei un viluppo di piume, una balla di fieno,

carica di gorgheggianti uccellini.

Ma per chi cantano? Chi mai li ascolta?

Merda. Sarebbe meglio scrivere

novelle per pollivendoli, romanzi zuccherini,

storielle piovose, canzoni da balera.

Ma è tardi ormai. Scriverai ancora versi,

questa feccia di vino che nessuno vuole bere.



*


Sai che significa essere bruciati

e senza un filo, un ‘ombra di sorriso?

Sai che significa implorare la gioia,

perché ritorni come un tempo sul tuo viso?

Un mare di fiori gettato su un guitto

non può colmare il suo vuoto orrendo.

Un attore senza voce è un lazzaro

e rotea come una girella nel vento.

Ma egli si ostina a non voler morire

e con desiderio aspetta l’alba

sterminata, gelida, ventosa,

perché è bella la vita, e misteriosa,

e così labile.



*


Come rassegnarsi al termine della morte,

quando si hanno ancora tante e tante

cose da dire, da gridare forte,

quando ti senti ancora un clown parlante,

un augusto ornato di pagliette,

alle cui spalle incalza un cane nero,

uno spogliamorti, un guastafeste.

Devi darti da fare, caballero,

perché ancora risuoni un’alborada

in questo capriccio spagnolo

e nella tenzone più desolata

non smettere il tuo buffo assolo.

Senza troppi riguardi

ti faranno cadere,

ma tu spolvera la tua bombetta, non cedere.

Imperversa, imperversa, prima che sia troppo tardi



*


Il buon tempo antico era una grossa mela

posata su una nuvola d’ovatta,

uno specchio barocco con una succosa candela,

una rossa rosa spampanata.

Il buon tempo antico era mia madre

col macinino, del caffè tra le ginocchia,

e le nere gelse e i sonagli del mare

e il crepitare verdognolo di una ranocchia.

Il buon tempo antico era il signor Botticelli

con un bouquet di variopinte primavere

e una manciata di tremuli uccelli.

Era il calduccio di casa nelle umide sere,

l’infuso di tolù, menta e limone

e i pupi di zucchero sul canterano.

La casa ora è cieca, ma un fioco lampione

si ostina ad illuminarla, avvizzito guardiano.




(alla maniera di Blok)


Io, che ero un tempo incendio, furia, spasimo,

me ne sto aggricciato su una panca,

assorto e assente aspettando il mio numero,

che eseguirò di malanimo.

Temo che fallisca il mio improvviso,

che il motore del cuore si spenga,

che la mia postura sbilenca

sia solo sorgente di risa

Eppure aspetto di entrare in scena,

anche se so che non mi applaudiranno.

Aspetto di gridare la mia pena,

il mio stolido e farsesco affanno.



*


Saskia non vuole che io muoia.

Sorride sotto il suo largo cappello rosso.

Vuole ridarmi un filino di gioia,

e non di quella all’ingrosso.


Devo ancora lottare col Signore,

che mi volta sempre le spalle.

Destarmi da questo violaceo malore,

da queste ore squallide.


Piccioncello, luna in quintadecima,

tutta vezzi di perle e merletti,

trascinami via da questa quaresima,

ma non correre troppo. Sono zoppo. Aspettami.



*


Poesia, sii sana e feconda.

Poesia, non morire

nell'accigliata baraonda

delle formule governative.


Stangate fiscali, equi canoni, blocchi,

scale mobili ed altre invenzioni recòndite

accecheranno i tuoi occhi

come escrementi di rondine.


Fuggi la folla di vaniloqui pedestri,

impastati di colla e di sterco,

le frittelle di archivio infette di peste,

il loro fetido gergo.


Ritaglia gabbiani dal cielo,

continua ad essere magica,

innàlzati sullo sfacelo

di un‘arida vita letargica.



5 - segue


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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